di Dante Bernini
Il dottor Finazzi era un medico molto stimato. Piuttosto pesante di corporatura, lo si vedeva, ma di rado, arrancare per le strade cittadine, con un bastone che di solito però portava appeso al braccio come gagà del principio di questo nostro secolo ormai finito. Quando, di ritorno da un viaggio, doveva arrampicarsi su per le tante scale della stazione ferroviaria di Agrigento centrale, arrivato in cima, si voltava a guardare come un nemico crudele quell’ostacolo ormai superato ed esclamava col suo spirito caustico che era tutti noto: “il dittatore ci ha trattati male”. Secondo il modo di dire popolare infatti, la stazione era stata fatta da Mussolini, era anche il maggiore dei titoli di merito vantati dal regime nei confronti di quella sperduta città sita in fondo ad un’isola che era già in fondo alla geografia patria.
Ma a parte la battuta del medico, veramente quella stazione costruita tra la fine degli anni Venti i primi anni Trenta, era stata un disastro, non solo e non tanto per lo scomodo che poteva rappresentare con le sue caratteristiche strutturali, quando per i danni causati dal suo inserimento nel cuore di una città antica, per intendersi al modo del cosiddetto viadotto Morandi nell’urbanistica più attuale.
Per costruirle infatti fu necessario operare uno sbancamento colossale nel quale furono travolti nobili residui della cinta muraria medievale, con diverse torri di cui è rimasta memoria in rare fotografie, in qualche disegno tracciato “dal vero” da artisti stranieri in visita ad Agrigento, e in numerose tradizioni, riportate ad esempio dal Picone o anche cresciute su ricordi privati di personaggi più o meno famosi. Pirandello, ad esempio, che in una di quelle torri, adibita obitorio comunale, pare che vide intrecciarsi l’amore la morte, una volta che bambino vi entrò (abitava a due passi da lì, di fronte alla chiesa di San Pietro) e vi scorse due amanti che in quel luogo si erano appartati, certi che la presenza del morto avrebbe custodito la loro intimità fraudolenta.
Su quelle mura sorgeva proprio all’angolo della piazza Ravanusella una chiesetta dedicata a Santa Lucia, il cui culto fu trasferito nella chiesa dell’Assunta, all’altra estremità della piazza verso oriente. La cinta includeva in quel tratto una porta, forse la Porta dei Pastai, il cui arco d’accesso fu salvato dalle diverse demolizioni ed è tuttora visibile, là in alto, dalla stazione merci o “piccola” (velocità).
Sul finire del XIII secolo, quando il dominio sulla città di Girgenti su buona parte della Sicilia occidentale era tenuta saldamente dalla famiglia Chiaramonte, la cinta muraria era stata rinnovata (hic sun fundatus, hic denuo sum renovatus). Secondo il ricordo che ne fu lasciato nella lapide che era sul palazzo dell’Orologio già municipio, l’opera fu compiuta nel 1297, che è giusto l’anno della pace di Caltabellotta.
Forse uno studio analitico potrà accertare dopo le congetture riportate dal Picone, quanta parte di quei resti risalisse all’epoca normanna e quando invece alla chiaramontana nella quale certamente tutta la cinta fu rinsaldata e dove fu necessario fu rifatta. Nei secoli le mura erano andate disfacendosi, ma fu il ciclone “ ferroviario” a eliminare ogni residuo, lasciando forse un po’ di rammarico per una nobile testimonianza, aumentando il senso di quel “maltrattamento” deprecato dal Dottor Finazzi.
Era stata risparmiata invece la chiesetta di Santa Lucia, che poteva sembrare un rudere insignificante e come tale fu portata via non si sa per quale precisa ragione, forse in omaggio al nuovo mostro, dopo quello ferroviario, della viabilità automobilistica. Non doveva essere una gran cosa, ma era interessante quella sua collocazione sulle mura, quasi a mettere sotto la protezione divina le fortificazioni cittadine, così com’era stato per la cinta greca presidiata dai templi.
Era un altro richiamo all’antica cultura che nel medioevo agrigentino ebbe più volte modo di affermarsi ? La chiesa doveva consistere in una semplice aula, con un piccolo portale sulla fronte ovest rifatto forse nel tardo ‘600 e sovrastato da un oculo come nella chiesa di San Biagio o anche in quella di Santa Maria dei Greci. Difficile giudicare l’epoca della originaria costruzione, le fotografie specie in casi così modesti possono sempre ingannare, e soprattutto non possono che restituire un tenue ricordo di un’opera distrutta, si dice dal tempo, ma più sicuramente dagli uomini.