Agrigento anche negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso ha fatto sognare i poeti, ha affascinante i viaggiatori ma ha anche provocato lo sdegno di non pochi intellettuali per evidenti mali evidenti nostro capoluogo siciliano.
Non mancano, infatti, le inchieste giornalistiche e i diari di illustri viaggiatori di mezzo secolo fa e le loro parole continuano ancora oggi ad essere attuali e per certi versi furono profetiche.
Il francese Bernard Berenson in visita al Duomo di Agrigento il tre giugno 1953, non può fare a meno di notare lo stato di abbandono in cui versava il patrimonio artistico che nei secoli ha arricchito il tempio.
Da un’occhiata in sagrestia ai muri ‘coperti di polverosi ritratti dì antichi dignitari ecclesiastici” e si chiede: “Chi mai, oggi, li guarda, conosce i loro nomi, si occupa di ricercare chi fossero e cosa avessero compiuto?”.
Dando poi uno sguardo alla città nuova la trova molto cambiata.
Agrigento è già in quei primi anni della seconda metà del Novecento una città “mercantile e rumorosa, con una piazza centrale sempre affollata e un Palazzo delle Poste che Berenson definisce “babilonese”.
Ad un altro illustre viaggiatore, Daniel Simond, dobbiamo una breve, ma particolareggiata descrizione delle condizioni di vita nei quartieri poveri di Agrigento, in particolare di quanti vivevano in via Garibaldi. Allo scrittore essi appaiono “non curanti e felici” i suoi residenti, nonostante il loro basso livello di vita. “Mi è stato mostrato un mucchio di catapecchie, su una terrazza di terra battuta dove fra polli e gatti giocano una quindicina di bambini-scrive Simond- Vedo ancora il pianterreno di una di queste: una stanza profonda e scura, una specie di autorimessa, abitata da una famiglia di sei persone.
Come palco una lastra di pietra rozza. Niente acqua, niente luce, niente gas, nemmeno il camino. La madre cucina in una specie di braciere le cui emanazioni invadono la camera prima di uscire dalla porta o dall’unica soprastante finestra. L’illuminazione è data da una lampada a petrolio. L’acqua viene attinta dalla fontana. Non si parla affatto di riscaldamento. Ogni sera si ricoverano i polli nella stanza per sottrarli ai ladri. In fondo ad essa si intravedono alcuni miseri giacigli dove bambini e genitori sono costretti a dormire in una promiscuità inimmaginabile.
L’arredamento è costituito da un cassettone logoro, un tavolino, qualche seggiola e degli sgabelli. La biancheria viene riposta nelle valigie, gli abiti appesi alle corde del bucato”. Si informa sulle gravi condizioni economiche della famiglia e poi aggiunge: “Esistono casi simili a centinaia”.
agrigento via gioeniNello stesso tempo però trova che “Molti cantieri sono attivi”, che quindi molte costruzioni nuove stanno sorgendo in città
e scopre che il popolo agrigentino “ha la forza di ricostruire, senza tregua, la sua casa, convalidando in tal modo la sua voglia di vivere”. E così conclude il capitolo del suo libro sulla Sicilia intitolato significativamente “Contrasti di Agrigento”.
In questo breve articolo possiamo riportare solo alcuni significativi articoli apparsi in diffusi quotidiani italiani. Ad esempio ricordiamo l’inchieste di Carlo Laurenzi, apparsa sul Corriere della Sera e di Paolo Monelli su La Stampa.
Confrontiamo adesso la condizione attuale della via Atenea di oggi (ancora via principale della città dei Templi) con questa descrizione di Carlo Laurenzi sul Corriere della Sera del sette agosto 1960.
Dopo aver rilevato che Agrigento è considerata il Far West d’Italia per “l’insicurezza della legge, la corruzione amministrativa e politica, il premere (nell’ombra) di volontà inique”, non può fare a meno di constatare che ha trovato la città “irrequieta ed arrogante” e che i servizi pubblici “debbono considerarsi, talora, mediocri al di là del lecito”( tanto che per diverse sere, dopo nove la città piomba di colpo nel buio, racconta).
Descrive la via Atenea in questi termini:” Vi si affacciano molti negozi, dei quali, si crederebbe, non esistono se non le vetrine, che sono imponenti e contrastano con gli interni, stambugi afosi. Il numero dei bar è altissimo. Le insegne pubblicitarie, un po’ dovunque, sono artigianesche, squillanti: si ricorre soprattutto, non senza fantasia, al cartone dipinto e agli striscioni di tela, cosicché la strada sembra imbandierata”.
Ed ecco poi come descrive gli Agrigentini che ha incontrato in quel caldo agosto del I960:
” La fierezza, in genere, forma la dote maggiore della popolazione, una fierezza distratta. E’ notevole la loro dignità di passeggiatori – gli uomini non si voltano a guardare le donne, nemmeno le poche donne vistose. Gli agrigentini non sono loquaci; il loro accento ha una qualche armonia. Girgenti non ha l’aspetto di un luogo particolarmente povero; i bambini sono scalzi ma non denutriti”.
E insieme a questi incontra sulla via moltissime suore “il cui atteggiamento è sicuro e disinvolto… Salutano franche i conoscenti, son salutate si fermano brevemente a conversare. Gestiscono in proprio, come cassiere e commesse, una loro libreria cattolica, probabilmente la più fornita della città” (la libreria delle Paoline).
Somiglia insomma la nostra via Atenea ad una via di Marsiglia o di Algeri più che ad un corso siciliano.
Laurenzi si sofferma poi sulle onoranze funebri in città e rimane colpito da un’insegna pubblicitaria così elaborata:” Onoranze funebri, di lusso, medie, comuni. Casse di tipo economico, medio, di lusso. Tutti gli ingredienti fotografici e burocratici. Trasporti in città e fuori municipio. Interpellateci”
Laurenzi si stupisce inoltre nell’osservare ché è uso comune tra gli Agrigentini preferire lunghe attese in un salone anziché radersi da soli a casa,” forse stimano poco dignitoso il non ricorrere al barbiere”.
Ma il nostro giornalista è entrato pure in Seminario per descrivere la vita dei futuri preti degli anni Sessanta, dei quali però ammira solo le abilità calcistiche e riferisce che “è credenza comune che i seminaristi saprebbero battere la squadra maggiore della città, il cui nome è, classicamente, Akragas“.
Mentre altre “abilità” sportive scorge tra i bagnanti di San Leone: “Chi dispone di una bicicletta, di un’automobile la spinge senza timore, vola sulla battima come lungo una pista, sollevando spruzzi, aprendo mulinelli di schiuma. Non esiste nulla, per un bagnante tradizionalista di meno distensivo. Ritengo che nessuna legge vieti queste gimkane: una delle automobili che correva sul lidi di Porto Empedocle aveva la targa dei Carabinieri“.
Sull’enciclopedia a fascicoli “Tuttitalia” (fascicolo 18 del 24 ottobre 1962)
la città moderna viene messa a confronto con quella antica e liquidata con queste poche righe:” Sul colle che vide le magnifiche dimore e le moschee dei tempi arabi e le leggiadre costruzioni del Medioevo, oggi è un pittoresco ma disordinato affollarsi di modesti edifici, stretti su viuzze tortuose e sconnesse, in cui circola rumorosa e loquace, la gente indaffarata. A mezzo della collina serpeggia, nel senso della sua lunghezza, l’arteria principale detta via Atenea, che faticosamente mostra di voler passare a nuovo decoro, arricchendosi di eleganti negozi e ripulendo a mano a mano il suo volto trasandato”
E’ del 1964, invece, appena due anni prima della frana, questa secca considerazione del giornalista Paolo Monelli, arrivato Agrigento nell’aprile del 1964: ’’ Ad Agrigento il misfatto è già compiuto, il danno è irreparabile, orrendo il risultato della associazione a delinquere dei peggiori nemici che abbia questa nostra patria infelice, nessuna regione esclusa…
La Valle dei Templi c’è ancora, e bisogna ringraziare il soprintendente alle antichità se ancora non c’è un distributore di benzina accanto al tempio della Concordia, se non si è costruita una fornace presso il tempio di Giunone per sfruttare il banco di bruna argilla su cui poggia, se un albergo sorto di recente al margine della zona archeologica (Villa Athena, N. D. R.) non si è ancora trasmutato, com’è nell’intento del suo proprietario, in un gigantesco edificio a elle alto cinque piani”
L’inviato de La Stampa si rende conto che non tornerà più intorno ai templi il vasto scenario della campagna agrigentina che aveva fatto trasalire di ammirato stupore Goethe e tutti gli altri illustri visitatori e che neppure la città medievale potrà più riprodurre la composta armonia di volumi e di colori. Né la periferia viene risparmiata. La fascia verde che circondava la città è infatti scomparsa giacché ’’cala dall’acropoli e marcia minaccioso verso le favolose rovine un disordinato esercito dei più disgraziati edifici che frettolosi capomastri possono concepire, i soliti giganteschi canterani con i sovrapposti cassetti semiaperti; avanzano ancora in ordine sparso ma ogni stagione ne accorrono altri a rinforzare la prima linea, saranno ben presto una barricata compatta’’.
Facile profezia, potremmo dire oggi.
Monelli descrive quindi con tinte sempre più fosche l’opera dei palazzinari agrigentini che fanno scempio della fascia verde dell’acropoli e non solo di essa. Parla infatti anche del “torrione di sedici piani che aduggia la pittoresca piazza del Municipio, venuto su in fretta senza che il sindaco e gli assessori che se lo vedevano crescere di ora in ora ci abbiano trovato nulla da ridire”.
Né valsero le proteste della soprintendenza ai monumenti (piuttosto blande in verità), né i ricorsi di privati cittadini proprietari di case su cui il torrione incombeva. E non si può accusare nessuno di facile dietrologia se si dice, insieme con il Monelli, che “l’impunita costruzione dell’enorme torrione è stata come lo sbaglio del primo bottone; dietro al primo una schiera di appaltatori e di speculatori si sono buttati allegramente a costruire in barba al regolamento edilizio, ai vincoli, ai divieti, con una anarchia che non tiene conto né di allineamenti né di livelli, scatoloni di cemento accanto a casupole meschine, la stalla accanto ad un casermone popolare”
In quegli anni sorgeva anche la via porta di mare, pensata come un balcone che intendeva affacciarsi sulla Valle.
Monelli non può fare a meno di notare che l’operazione si trasformò in un caso “pacchiano” perché immediatamente sulla strada sorsero alcuni torracchioni di otto o dieci piani che gli agrigentini chiamano “grattacieli, ma sono scatoloni mal fatti, scomodi, ciascuno con una sola scala e cosi angusta che si dice che se uno ci muore non si sa come fare a portarlo giù, è dubbio che possa trovar posto se non in piedi nella scatoletta dell’ascensore, dovranno calarlo dalla finestra con un corbello da muratore”.
Tutto questo accadeva mentre la direzione generale delle Belle Arti continuava a discutere sull’opportunità di preparare piani per salvaguardare la zona archeologica e la città e mentre il Comune non sembrava neppure darsi premura di preparare un piano regolatore benché dal 1957 ne avesse l’obbligo.
Ma le inchieste giornaliste di questi anni escono insieme ai primi rapporti della Regione sul sacco di Agrigento. Uno di questi viene pubblicato integralmente dal giornale L’Ora nell’estate del 1964 e porta la firma del maggiore dei Carabinieri Rosario Barbagallo e del viceprefetto Nicola Di Paola. L’assalto impunito alla città viene così descritto:” Da un lato i cittadini si sono sentiti autorizzati a realizzare opere in contrasto con le prescrizioni in vigore; dall’altro gli amministratori hanno fatto a gara nell’accordare permessi e deroghe.
Elio Di Bella