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Agrigento in Versi: Le Odi di Pindaro

1 Settembre 2016 //  by Elio Di Bella

 

DAVIDE-BRAMANTE-Agrigento-tempio-sospeso

di Nino Agnello

Del famoso poeta greco Pindaro (Cinocefale 518 – Argo 438 a.C.) presentiamo qui cinque odi che riguardano Agrigento  e i suoi antichi signori.

PITICA VI per Senocrate (490);

PITICA XII per Mida (490);

OLIMPIA III per Terone (476);

OLIMPIA II per Terone (476);

ISTMICA II per Trasibulo.

Le riportiamo quasi per intero, abbiamo tagliato solo pochi brani meno necessari alla loro bellezza poetica.

Le riferiamo nella elegante traduzione poetica di Ettore Romagnoli e coi relativi commenti. Anche a questi abbiamo apportato, per conseguenza, qualche piccolo taglio, ma non osiamo aggiungere niente di nostro, tanto sono esaurienti sia le delucidazioni mitiche e letterarie, sia le brevi note di carattere estetico : essendo queste più che sufficienti alla giusta intelligenza dei testi pindarici, ci piace avvalerci della fatica dell’illustre filologo (cfr. il volume Esiodo Pindaro Teocrito Eronda, a. c. di E. Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1969), e risparmiare la nostra, che sarebbe, nel caso specifico, assolutamente inadeguata.

ODE PITICA VI

PER SENOCRATE D’AGRIGENTO VINCITORE COL CARRO A PITO

I

Udite! Ché il suol de le Càriti ché il suol d’Afrodite

pupilla fulgente

solchiam : de la terra sonora

cerchiam l’umbilico, ed il tempio

là dove, o felici rampolli

d’Emmeno, o Agrigento che siedi sul fiume,

[o Senocrate,

è pronto, pel pitico trionfo, un tesoro di cantici, estrutto nel grembo selvoso che luccica d’oro, d’Apollo.

II

Né pioggia d’inverno che piombi con impeto fitto, esercito crudo

di nube sonora, né turbine con furia d’avversi lapilli, potrà mai scalzarlo, rapirlo

nei gorghi del mar : la sua fronte fulgente nel sole, la insigne vittoria che cinse, o Trasibulo, nei grembi di Crisa, tuo padre e tua stirpe, dirà, che la dicano, agli uomini.

  III

Ed or, su la palma reggendola, ben alta tu serbi

la legge che un giorno

di Riira il figlio, raccontano,

fra i monti insegnava al magnanimo

Pelide, lontano ai suoi cari :

che prima il figliuolo onorasse di Crono, signore dei tuoni e dei folgori dal mugghio profondo : che poi non privasse di simile onore la vita dei suoi genitori.

IV

…………..

V

……Ben questi son fatti remoti.

Ma pur fra quei d’ora Trasibulo eccelle,

seguendo la norma del padre,

VI

e in ogni suo fregio emulando lo zio. Pone freno

di senno a ricchezza :

né ingiusto e protervo fruisce

di sua gioventù : de le Muse

negli aditi, falcia saggezza :

Posìdone, a te che dirigi l’ardor dei corsieri,

s’accosta con ilare cuore : la gaia

sua mente, in simposi d’amici, è più dolce

che il frutto del cribro dell’api.

E’ per Senocrate, fratello di Terone : scritta nel 490, un anno o due prima che Terone divenisse tiranno d’Agrigento. L’incarico di comporre l’epinicio ufficiale fu dato a Simonide che allora toccava l’apogeo della fama; e questa ode pindarica era un di più. Ed è infatti diretta, non proprio al vincitore, bensì al figliuolo suo Trasibulo, amico dilettissimo del poeta. Di Trasibulo viene qui special- mente esaltata la pietà filiale (…). E certo in quei tempi torbidi avrà avuto occasione di dame prova. Ma che poi la esaltazione si debba proprio alla circostanza che Trasibulo avrebbe assunto egli stesso e non affidato ad altri il compito di guidare il carro, come è opinione di antichi e moderni commentatori, non mi par sicurissimo. Importa poco.

I canti che celebreranno questa vittoria son paragonati da Pindaro ad un tesoro — cioè ad un edificio costruito per contenere oggetti preziosi. A Delfi ce n’erano molti; e tuttora si possono ammirare gli avanzi di quello innalzato dagli Ateniesi, dai Sifni, dagli Cnidi. Questo edificio ha una facciata, volta ad Oriente, e la facciata un fastigio, che più d’ogni altra parte accoglie e riverbera i raggi del sole (v. 15). — Il suolo delle Càriti (v. 1) è la poesia L’umbilico, cioè il centro, della terra (v. 4) è Delfi, dove s’erano scontrate le due aquile che Giove lanciò a volo dalle due estremità del mondo. Il grembo selvoso d’Apollo (v. 8) è il suo santuario, scintillante di oggetti aurei e tutto cinto da una selvetta.

Questa ode non ha forma epodica, ma è composta di sei strofe uguali.

ODE PITICA XII

A MIDA D’AGRIGENTO

VINCITORE COL FLAUTO A PITO

I

Te invoco, città di Persefone, città la più bella

[fra quante

albergo son d’uomini, o amica del fasto, che presso

[Agrigento

ferace di greggi, ti levi su clivo turrito : o Signora,

gradisci benevola, e teco si accordino gli uomini

[e i Numi,

da Mida le foglie del serto di Pito gradisci, e lui

[stesso,

che vinse gli Elleni nell’arte cui Pallade

un giorno rinvenne, intrecciando

la nenia feral de le Gòrgóni.

II

………………….

III

                La Dea compose quell’aria, ed agli uomini

presente ne fece, la disse canzone

dai capi molteplici; e fosse

compagna all’agon popoloso.

IV

Sgorga essa, dei balli compagna fedel, fra la tenue

[lamina

di rame, e la canna che cresce nei prati cui bagna

[il Cefiso,

vicino a la bella contrada d’Orcòmeno, sacra a le

[Càriti.

Se prospera sorte è tra gli uomini, da pena non mai

[si scompagna.

Ma un Nume segnare oggi stesso può fine alla pena.

[Non s’évita

la sorte. Ma un giorno, giungendo imprevisto,

un bene avverrà che ti neghi,

e l’altro, inatteso, t’accordi.

Nella stessa gara in cui Senocrate vinceva la corsa dei carri, il suo più modesto concittadino Mida trionfava nella gara auletica. E Pindaro ne cantava la vittoria. Questa ode occupa dunque ima posizione singolare fra le altre, composte quasi tutte ad esaltazione di atleti; e si distingue anche dal lato della forma, perché non presenta tipo epodico, ma si compone di quattro strofe uguali.

Come per gli atleti ricorreva a miti eroici, per un musico Pindaro ha scelto un mito musicale. Quando Perseo recide il capo della Gòrgóne, i serpi che ghirlandano il capo della creatura mostruosa e bellissima si divincolano nell’agonia, emettendo lugubri sibili. Atena, che assiste l’eroe, imitando quella funerea sinfonia, compone un’aria, la chiama aria dalle molte teste, e la dona agli uomini, che serva ad accompagnare gli agoni.

Donde origina questo mito? Ai Greci la musica sembrava arte più che ogni altra misteriosa e divina. Maghi, come Orfeo, erano i primi musici : magiche le arie che quelli avevano composte. E si tramandavano, distinte ciascuna da un nome, di generazione in generazione, come cose sacre; e veniva punito chi le alterasse.

Tra queste ce ne dovè essere una detta aria dai molti capi (nómos pollàn kefalàn); e capo avrà voluto dire principio della melodia, tema; e questa aria sarà stata appunto caratteristica per la molteplicità, allora non consueta, dei temi. Oscuratosi, o deliberatamente repudiato il vero senso, il vocabolo capi fu inteso nel significato proprio, e ne derivò questo mito. Bellissimo, e tale che un musicista moderno potrebbe toglierne materia per una composizione sinfonica.

A proposito di Mida e di questa sua vittoria, gli antichi narrarono un aneddoto. Appena Mida ebbe incominciato a suonare, la linguetta del flauto (aulòs : noi traduciamo flauto, ma in realtà era uno strumento a linguetta) si ruppe. Ma il virtuoso non se ne diede per intesa. Seguitò a suonare il flauto come fosse un sufolo, e ciò nondimeno seppe deliziare gli ascoltatori, ed ebbe la palma. La corda unica di Paganini. Gli uomini son sempre gli stessi fanciulli cicaloni.

(              )

La città invocata in principio è Agrigento : l’Agrigento ferace di greggi nel verso 2-3, è il fiume omonimo, che scorre presso la città. Di Perseo e della gioviale pioggia d’oro che gli diè vita, tutti sanno. Meno ovvio è il mito di Polidete re dei Serifi, che, impadronitosi della madre di lui Danae, la costringeva a nozze ingrate. Perseo, recisa la testa di Medusa, inforcò Pegaso, volò sull’isola, e, mostrando la testa ferale impietrò il re e tutti gli isolani. Il mito fu largamente sfruttato dagli scrittori di commedie e di drammi satireschi.

20

ODE OLIMPIA III

PER TERONE D’AGRIGENTO

NELLE FESTE OSPITALI DEI DIOSCURI

I

Strofe

Voglio piacere ai Tindaridi amici degli ospiti, e ad

[Elena fulgida chioma,

cantando l’illustre Agrigento,

un cantico, fregio ai cavalli che vinsero a Olimpia,

[levando a Terone. Cosi mi stia presso la Musa : ché, armonico modo

[trovato, di nuovo fulgore costringo

la voce, ch’è luce alle feste, nei lacci di dorico

[calzare.

Antistrofe

Già le corone costrette sui crini reclaman che un

[debito sacro ai Celesti

io sciolga, ed insieme la cetera

dal vario tinnito, ed il grido dei flauti, e di versi

[compagini mescoli

coi modi dell’arte, ed esalti il prode figliuol d’Ene-

[sidamo. E un grido a me Pisa lanciò,

da cui verso gli uomini i canti largiti dai Numi si

[lanciano,

Epodo

verso i mortali a cui l’Etolo, veridico giudice per gli

[Elleni, d’Eracle

seguendo l’antico precetto, componga

fra i crini, ghirlanda sui cigli di glauco lucore,

[l’ulivo selvaggio :

l’ulivo selvaggio che Alcide, dall’onde dall’ombre

[de l’Istro portò,

che fosse alle gare d’Olimpia bellissimo premio.

II

Strofe

Degli Iperborei la gente devota d’Apollo gliel die’.

[La convinse ei, parlando leale. Pel bosco di Giove

un albero chiese che ombrìe porgesse alle turbe,

[corone a prodezza.

Ché a Giove eran già consacrati gli altari : la Luna

[gli aveva dall’aureo carro vibrata,

a mezzo del mese, la sera, già colma l’ardente

[pupilla :

Antistrofe

già dell’Alfeo su le rupi santissime aveva fondato

[dei ludi il giudizio

solenne, e il festivo quinquennio;

ma non di begli alberi il suolo fioria ne le valli di

[Pélope Cronio.

Ei vide che Tesserne spoglio di troppo rendeva il

[giardino soggetto agli sguardi roventi

del Sole. Ed il cuore lo spinse che andasse alle terre

[dell’Istro,

Epodo

dove la figlia di Lato, che sferza i cavalli l’accolse

[quel giorno

ch’ei giunse dai culmini, dai sinuosi

recessi d’Arcadia. Sospinto l’avevano il fato di Giove,

[l’imperio

d’Eucaristio, a cacciare la cerva, dall’auree coma,

[che un di Taigeta

offriva ad Artemide Ortosia, rendendola sacra.

IlI

Strofe

Quella inseguendo, anche vide la terra lontana che

[stendesi di là dagli spiri

del gelido Bora. E ristette

agli alberi innanzi, stupito. E tosto lo invase

[dolcissima brama

di quelli piantare d’intorno la meta che in dodici

[spire

[circondano i cocchi. — Alla festa

qui giunge or, beato, coi figli gemelli divini di Leda.

Antistrofe

Quando egli ascese fra i Superi, ad essi commise

[dirigere il fulgido agone

che saggia il valore degli uomini

e il volo dei carri precipite. — Predico a Terone, ché

[il cuore mi spinge,

e ai figli d’Emmeno, alta gloria. Di Tindaro i figli

[dai vaghi corsieri la porgono ad essi,

 perché più d’ogni altro mortale li onorari con mense

[ospitali,

Epodo

e dei Beati le feste osservan devoti. — Se il pregio

[dell’acqua

va sopra ogni cosa, se l’oro val meglio

che ogni altra ricchezza, Terone, movendo dal suolo

[natale, pervenne

ai limiti estremi, toccò d’Alcide i pilastri. Più lungi

[non vanno

né savi, né ignari. Io noi tento. Sarebbe follia.

 Tanto questa quanto l’Olimpia II sono ispirate alla medesima vittoria, e composte nel 476. Terone era allora al culmine della sua potenza. Ma la diversità di tono fra le due odi rende ovvia la supposizione che siano state scritte in momenti diversi. La Olimpia II, tutta ombrata e malinconica nella sua divina bellezza, sembrerebbe riecheggiare i tristi momenti che Terone ebbe a passare a causa di Polizelo, di Trasideo, ed anche di Capi ed Ippocrate, suoi stretti parenti, che gli si erano ribellati. Prima che il cielo si intorbidisse sembrerebbe invece composta questa Olimpia III, tutta gaia e festevole.

Essa celebra la vittoria olimpica; ma accompagna insieme una festa celebrata in onore dei Dioscuri e di Elena, loro sorella. (…).

Pindaro asserisce che i Dioscuri proteggono e proteggeranno sempre Terone, perché egli è più che ogni altro mortale largo di simili imbandigioni (40).

Del resto, Terone era stretto da certa affinità coi Dioscuri, fratelli dell’Argiva Elena, perché dal lato materno discendeva da un re argivo, Adrasto. E infatti, i Dioscuri riscuotevano culto speciale in Agrigento.

Parlando dei Dioscuri, Pindaro aveva buon giuoco a parlare d’Olimpia. Eracle, allorché ascese aU’Olimpo, aveva affidato ai Dioscuri la cura dei giuochi da lui fondati; e un altare dedicato ad essi sorgeva nell’entrata dell’Ippodromo d’Olimpia. Così, naturalmente, Pindaro passa da loro a un mito dei primi tempi dei giuochi, col quale è connesso il dilettissimo Eracle.

Questo eroe, una volta, inseguendo, per ordine d’Euristeo, la cerva dalle corna d’oro, giunse agli Iperborei e vide l’oleastro, ignoto alla Grecia. Quando poi ebbe fondati nella Elide, su l’Alfeo i giuochi olimpi, s’avvide che il terreno delle gare era troppo brullo e troppo esposto al sole. Ripensò all’oleastro, tornò agli Iperborei, e li persuase a donargli quella pianta, che desse ombre alla folla, ghirlande ai vincitori. Ché i trionfatori d’Olimpia venivano appunto coronati con olivo selvaggio. E del giudizio dei giuochi era incaricato un uomo d’Etolia — cioè imo degli Elei che Pindaro chiama Etoli perché l’etolo Oxilo ebbe l’Elide in dono dagli Eraclidi.

Pindaro considera questo suo canto come una statua, un ricordo marmoreo : e in questo senso parla di innalzarlo.— Il Dorio calzare (v. 5) è. naturalmente, il ritmo, e, sia pure, il ritmo incarnato in note : e in questa forma deve entrare la materia plastica, la voce. La metafora è strana (…).

Frequenti sono le personificazioni. Le corone reclamano un debito (6) : Pisa lancia un grido (9) : i canti balzano verso i vincitori (14) : il giardino è sottoposto (24) ai raggi del sole.

Preziosi sono i versi 5 – 9, perché ci dicono esplicitamente come erano istrumentati gli epinici. Voci con accompagnamento di cetere e di flauti.

Notevole è poi il pensiero che conclude l’ode, sulla rispettiva eccellenza dell’acqua, dell’oro, della vittoria agonale.

ODE OLIMPIA III

PER TERONE D’AGRIGENTO

VINCITORE COL CARRO IN OLIMPIA

I

Strofe

Inni, che legge date alla cetera,

quale dei Numi, qual degli Eroi, qual dei mortali

[celebreremo?

Pisa è di Giove : le olimpie gare

fondava Alcide

con le primizie

di guerra : ed ora, per la quadriga vittoriosa,

cantar Terone convien, che gaudio giusto è degli

[ospiti,

è d’Agrigento

colonna, savio dator di leggi, fior d’avi illustri,

Antistrofe

che dopo lunghi gravi travagli

giunsero a questa sede fluviale, della Sicilia furon

[pupilla;

e venne il tempo sacro al Destino,

e aggiunse all’insite

virtù fortuna.

Su via figliuol di Rea, Cronìde, tu che proteggi

 d’Olimpo i vertici, dei giuochi il fiore, dell’Alfeo

[l’onde,

t’allegra ai cantici,

ed ad nepoti benigno serba la terra avita.

Epodo

Neppure il Tempo, padre del tutto,

far sì potrebbe che non compiuto l’esito fosse

d’opra compiuta, giusta od ingiusta. Ma con la sorte

prospera, nasce l’oblivione. Sottesso il bene,

sottesso il gaudio, giace domato, per quanto incalzi,

si spinge il duolo,

II

Strofe

quando pel cenno del Dio, la Parca

tragga la sorte d’eccelso bene. S’attaglia quanto dico

[alle figlie

di Cadmo. Molto soffrir; ma il duolo

dinanzi ai beni più grandi cadde.

Semèle               

Antistrofe

D’Ino, raccontano …

…………..

Epodo

…………

III

Strofe

….su Polinice

piombato al suolo, restò Tersandro,

che fra certami,

fra guerre e zuffe,

riscosse onore. Da tal rampollo quindi risursero

degli Adrastìdi le case; ond’ebbe sua stirpe il figlio

d’Enesidàmo.

Giusto è che cantici d’encomio, e suoni di lire ei goda,

Antistrofe

poi ch’egli stesso vinse in Olimpia;

e a Pito, e sovra l’Istmo,

le Càriti al suo germano,

[ch’ebbe qui simile

sorte, concessero fiori e ghirlande,

premio per dodici

rapidi giri

della quadriga. — Vincer le gare, dai crucci libera.

Ricchezza, quando di virtù s’orna, copia opportuna

porge di molte

bell’opre; e lungi tien rincalzante profonda cura;

Epodo

ricchezza, stella fulgente, luce

per l’uom verissima, quand’ei, godendola, sappia il

[futuro :

IV

Strofe

Ma nella notte sempre nel giorno

sempre, il fulgor del sol mirando, godono i buoni

[la vita immune

d’ogni fatica;

….

Antistrofe

……

Epodo

…….

V

Strofe

……

……— Molti son dardi pronti

nella faretra

sotto il mio cubito,

che a chi comprende favellan chiaro; ma per le turbe

non hanno interprete. Saggio è chi molto sa per

[natura

ma quanti appresero

alla rinfusa, gracchiano invano, garruli corvi

Antistrofe

contro l’augello di Zeus divino.

Ora alla meta rivolgi l’arco: su via, mio cuore,

chi mai lanciando

pure ima volta le frecce fulgide dal pensiero agile,

detteremo?

Agrigento volgi la mira. Con cuor veridico

 pronuncio un giuro : che da cent’anni questa città

non diede a luce

uom più benevolo più liberale verso gli amici.

Epodo

Ma suole a laudi seguir Fastidio,

che con Giustizia non s’accompagna, bensì coi tristi

soffocar tenta plauso che suoni per le belle opere

dei buoni. E dimmi, chi numerare potrà le arene?

I benefizi che da Terone sugli altri caddero,

Chi mai dirà?

 Questa ode meravigliosa fu composta (…) nel 476, dopo l’Olimpia III, quando per Terone il cielo cominciava ad intorbidarsi per l’intervento che dovè prendere in favore del genero suo Polizelo (…). Ad intenderne gli accenni, conviene rievocare nella loro successione cronologica le avventure, qui ricordate, delle genti cadmee.

Cadmo, il fenicio mitico fondatore di Tebe, ebbe quattro figlie e due figliuoli. Tutti incontrarono tragica morte; qui basta ricordare Semele, Ino, Polidoro.

La prima era amata da Giove, che si recava da lei in sembianze umane. Giunone, gelosa, la indusse a chiedere all’amante celeste di mostrarsi in tutto il suo fulgore. Giove la esaudì; ma il vampo della folgore celeste da lui brandita ridusse in cenere la giovane. Il nume sottrasse vivo, dal morto alvo materno, il bimbo da lei concepito, che fu poi Dionisio, il dio cinto d’ellera del vino e dell’ebbrezza. Semele fu assunta anch’essa in Olimpo.

Ino, poi che il suo sposo Atamante le ebbe ucciso il figlio Learco, prese in braccio l’altro figlio, Melicerte, e si precipitò seco in mare. Ambedue divennero divinità del pelago benevolo ai nocchieri.

Da Polidoro nacque Labdaco, da cui discesero Labdo, e il fatale Edipo. I due figli d’Edipo, Eteocle e Polinice, si uccisero in duello reciprocamente; ma sopravvisse, a continuar la stirpe, Tersandro, figlio ‘ d3 Polinice e di Argia, figlia di Adrasto re d’Argo. l’discendenti di Tersandro passarono a Rodi, e di qui ih Sicilia, dove fondarono Gela; e da Gela, final- , ‘ ingente, mossero a fondare Agrigento. La stirpe di Terone risaliva dunque, dal lato paterno, sino a {Cadmo, dal materno sino al re d’Argo Adrasto. Onde Ìr Suoi antenati sono chiamati da Pindaro Adra- Stidì (v. 55).

/ Ed ecco il piano dell’ode.

Pindaro dice che per questa vittoria, riportata  in Olimpia, deve cantare : Giove, protettore di Pisa, cióè dell’Elide, cioè d’olimpia; Brade che fondò i giuochi olimpici; Terone che in questi giuochi ha trionfato con la quadriga.

Terone è sangue degli illustri discendenti di Cadmo, che dopo lunghi travagli giunsero in Sicilia ed ebbero finalmente fortuna : l’abbiano anche i loro nipoti!

Qui il poeta introduce l’affermazione che la sorte degli Adrastidi fu mista di sciagure e di fortune. Il concetto nella sua forma esplicita è esposto al v. 43-45 : ed è preparato e seguito da riflessioni concomitanti ed esemplificazioni mitiche. Nulla può far sì che le sciagure sofferte siano non sofferte; ma il bene che sopraggiunge le fa dimenticare. Così avvenne per Semele e per Ino. La sorte degli uomini è instabile; e instabile fu per gli antenati di Terone, da quando Edipo uccise Laio suo padre; onde fu ( fluttuazione di beni e di mali, Terone ha raggiunto adesso il vertice della felicità umana : ha vinto il supremo fra gli agoni d’Ellade.

Segue la solita affermazione che la massima felicità consiste nel vincere le gare e nell’esser ricco. E poi, il poeta esalta la ricchezza di Terone, osservando però che la ricchezza è vera luce per l’uomo solo quando esso è pio, cioè quando conosce la legge etica che regge le sorti del mondo; e si apre così la via a descrivere la vita ultramondana degli eletti. Conclude infine asseverando che Terone si trova appunto in tale condizione, e però, ad onta delle mene degl’individui, va famosa per giusta prodigalità. A quest’ultima affermazione giunge attraverso una immagine che converrà chiarire.

Metafora comunissima in Pindaro è immaginare che il poeta sia un arciere, i suoi canti frecce, meta la persona o la cosa esaltata nel canto. Or qui asserisce d’aver frecce a dovizia : chiede poi a se stesso, ed è domanda retorica, riecheggiante con effetto musicale la domanda che apre l’epinicio, chi debba colpire; e afferma che deve colpire Agrigento e Terone : Terone che largì alle genti tanti benefizi quante arene ha il mare. Così termina l’ode.

Questa linea, semplice in complesso e nitida, si insinua qua e là in digressioni. Talune ovvie e inerenti all’andamento generale, come la pittura dei Beati. Altre più capricciose e remote. (     ).

(              ) — L’altra digressione,, più lunga, e di meno

agevole intelligenza, è il celebre apoftegma :

Saggio è chi molto sa per natura; ma quanti appresero

alla rinfusa, garruli corvi, gracchiano invano contro l’augello di Zeus divino.

In genere, s’intende che ,sia un’allusione ai poeti suoi rivali Simonide e Bacchilide. Come c’entri nel contesto, si vede poco; ma, d’altra parte, non sarebbe questa l’unica volta che Pindaro parla in un epinicio di sue questioni personali, con allusioni che ormai è impossibile intendere sicuramente.

Sebbene sia inclusa fra gli epinici, questa odenon  può dirsi vero canto trionfale. Dalla vittoria prende appena il pretesto; ed è poi tutta una balenante rievocazione, una saggia trama di esortazioni,

una  speculazione mistica. Thrénos, meglio che epinicio.

ODE ISTMICA II

A TRASIBULO D’AGRIGENTO

IN MEMORIA D’UNA VITTORIA RIPORTATA 

DA SUO PADRE

COL CARRO NEI GIUOCHI ISTMICI

I

Strofe

Trasibulo, gli uomini prischi che il carro salian

[de le Muse

d’oro velate, trattando la cetera insigne,

gl’inni, saette soavi, spontanei lanciavano ai giovani,

quanti eran vaghi e toccavano la florida età

che d’Afrodite dal trono vezzoso la cura suade.

Antistrofe

Ché allora venale non era, né a prezzo locata, la

[Musa,

né le melliflue canzoni solean di Tersicore

dolce canora!, d’argento la freccia adornarsi, e

[far lucro.

Ora la massima è forza seguir dell’Argivo;

ch’essa ben prossimo il piede conduce ai sentier del vero.

Epodo

« L’uomo è denaro, è denaro », quei disse, vedendo

[sparire

coi beni gli amici.

Saggio tu sei, tu m’intendi. Né ignori l’equestre

istmia vittoria ch’io canto :

la concedette a Senocrate Posìdone; e il serto

d’apio dorico, a lui

mandò, che al suo crin lo stringesse,

II

Strofe

e l’uomo di cocchi maestro, fulgor d’Agrigento,

[onorò.

Anche lo vide, e gli diede nei giuochi di Crisa

Febo vittoria; e in Atene fulgente, partecipe ai premi

degli Erettidi famosi, non ebbe a lagnarsi

dell’abilissima destra che a tempo Nicòmaco tese,

Antistrofe

illeso spingendo il suo cocchio, le briglie allentando.

[Gli araldi

lui ben conobber dell’Ore, ministri di Giove Cromo, gli Elleni, che un giorno di lui furono

[ospiti e dolci

a salutarlo levaron le voci, quand’egli

su le ginocchia cadeva d’un’aurea Diva, di Nice,

Epodo

nella loro terra, che detta dagli uomini è bosco

di Giove.

Qui stretti ad onore

che non morrà, d’Enesìdamo furono i figli.

Ma sconosciuti alle case

vostre, non sono, o Trasibulo, né i lieti banchetti

risi da grazia, né gl’inni

che suonan più dolci del miele.

III

Strofe

 Né rupe né impervio sentiero trattiene chi brama ‘                                                               [l’elogio

 dell’Eliconidi addurre agli uomini chiari.

Oh, se potessi, vibrandolo, sì lunge scagliare il mio                                                                                    [disco

quanto ne l’impeto nobile Senocrate tutti

 gli altri mortali vinceva! Pregiato dai suoi cittadini,

Antistrofe

volgea la sua mente ai corsieri, qual patrio costume

[degli Elleni :

tutte onorava dei Superi le mense né mai

la sua mensa ospitale piegar senza vento le vele;

ma sino al Fasi nei giorni d’Està si spingeva,

ma navigava l’Inverno fin presso alle spiagge del

[Nilo.

Epodo

Or, poi che l’invide spemi circondan le menti degli

[uomini,

tu mai non celare

né le virtù di tuo padre, né questi miei canti.

Non perché immoti restassero

io li composi in tua lode. Su via, Nicasippo,

recati all’ospite mio

diletto, e quest’inno a lui porgi.

Quest’ode (…), la più antica delle siciliane è composta per una vittoria di Senocrate; ma dopo la morte di lui; ed è anch’essa indirizzata all’amico diletto Trasibulo. 

Dal contenuto parrebbe probabile che fosse morto anche Terone

Un tempo — dice Pindaro — i poeti cantavano l’elogio ai giovinetti per la loro bellezza, per i loro meriti : adesso invece si canta per chi ha quattrini. Sei savio e intendi meglio ch’io non ragioni (1-13).

Ma io canterò l’ultima vittoria che tuo padre Senocrate riportò sull’Istmo. L’ultima, non l’unica. Aveva anche vinto nei giuochi di Crisa, e in Atene, dove non ebbe a lagnarsi dell’auriga Nicomaco, e ad Olimpia, dove salutarono festosi la sua vittoria gli araldi Elei, che erano stati largamente ospitati da lui ad Agrigento. Ed in Olimpia i figli di Enesi- damo, cioè Terone e Senocrate, conseguirono vittorie la cui fama non morrà (31-36).

E potessi con la mia parola tanto superare gli altri poeti quanto Senocrate superava tutti gli altri uomini! (37-40).

Elogio di Senocrate (4045).

Ora gl’invidiosi vorrebbero che si tacesse di lui. Ma tu fa’ suonare alto il suo nome, ed il canto in cui io lo esalto (4346).

Rivolgendosi infine ad un certo Nicasippo, il poeta gli offre il canto perché lo rechi a Trasibulo. E così, termina l’ode.

I poeti salgono il cocchio delle Muse — così vediamo in antiche rappresentazioni, l’eroe stare sul carro accanto alla Dea che lo protegge. — Le canzoni moderne si vendono a prezzo, come le cortigiane : han voce lusinghiera, e viso tutto adorno di gioielli (6-8). — Era famosissima fra i Greci la massima : l’uomo è denaro, attribuita ad un Aristodemo, che qualcuno includeva fra i sette sapienti.

La massima, al solito, è personificata : dunque ha anche piedi, e può camminare; sicché Pindaro dice che muove presso ai sentieri di verità (9-10). — Il « Saggio tu sei, tu m’intendi » si riferisce a quanto è detto sopra, alluda o non alluda a Simonide; ma poi nel testo è riferito, assai più strettamente, a quanto segue. E’ strano zeugma, non unico in Pindaro; e di gusto non indiscutibile (13). — Gli Araldi delle Ore sono gli Araldi Elei che al cominciar delle feste olimpiche annunciavano la tregua sacra; ed erano stati (…) largamente ospitati ad Agrigento da Terone e Senocrate (24). — La Dea Vittoria accoglie il vincitore : qui si dice che questi le cadde sulle ginocchia (27). — Come altrove ad un arciere, qui il poeta è paragonato ad un discobolo : il canto sarà qui disco, come lì saetta (37). — Più strana è la metafora che segue. La mensa è una nave. Se il vento (dell’ospitalità) soffia nelle vele, gli ospiti .scialano : si trovano male se il vento cade e le vele si sgonfiano. Alla mensa di Senocrate non mancò mai vento : e andò d’estate sino al Fasi, a Nord, dove c’è fresco; d’inverno sino al Nilo, in clima temperato. Fa un po’ ridere, ma è immaginoso.

Quel che dice dei propri versi, che non li ha scritti perché rimanessero lì fermi, bensì perché .girassero il mondo, è languida eco della immagine mirabilmente svolta qualche anno prima nel preludio della Nemea V. E Nicasippo, infine, è la persona a cui è affidata l’ode perché la porti a chi la deve ricevere, e forse perché ne diriga, in assenza del poeta, l’esecuzione. Un collega, dunque, dell’Enea di cui si parla nella Olimpia VI.

Quest’ode come ho già accennato, non è un epinicio, bensì una epistola consolatoria. E non ha mito.

* * *

Poco ci viene da aggiungere alla poesia di Pindaro, perché è un’aquila che alto vola, come già disse Orazio, e vano sarebbe corrergli dietro.

Noteremo soltanto come accanto alla lode dei signori, dei « tùrannoi », alta risuoni la lode di Agrigento .« città la più bella fra quante / albergo son d’uomini ».

Accoglieremo la tradizione secondo cui Pindaro si facesse pagare (e lautamente) i suoi elogi? o si facesse « pregare assai »? Era affar suo e non nostro. Forse dell’uomo necessitato. Ma il fatto che ne parla con un certo disprezzo, ci farebbe inclinare per una risposta negativa.

Comunque, a noi importa soltanto il fatto che Agrigento tramite Pindaro entrò a vivere degnamente nella storia della poesia. E non occorre dire « greca », perché sarebbe riduttivo, almeno per l’antico poeta.

Le dicerie e le leggende restano nel dubbio e possono essere respinte, l’opera d’arte invece è ima realtà che non può essere rifiutata o messa in discussione. Specialmente se a distanza di tempo ci troviamo una qualche concordanza d’amore e di orgoglio o anche di biasimo attuale.

O innocuo richiamo.

Pindaro ci porta spesso dentro i miti : la sua poesia ne ha bisogno come di un ingrediente estetico indispensabile (fu così per ogni estetica classica e classicheggiante), perché il mito assorbe l’episodio attuale e privato e lo universalizza, per cui uomini e dei — tramite la poesia — vivono di vita in comune. Così anche le leggende assumono un ruolo paradigmatico — nella vita morale e nella storia delle passioni — con un processo d’innalzamento e di estensione temporale. Ma il tramite è sempre l’arte, e l’arte greca per eccellenza.

In particolare Terone, Trasibulo, Mida, Senocrate sono uomini di un tempo storico preciso, il V secolo a.C., coi loro momenti di gloria e di crisi, con la loro carica eroica e la nobile generosità ospitale. Gli eroi, per Pindaro, sono belli e poetici, se sono uomini dal gesto singolare e dal cuore mu

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nifico : la poesia allora trova la corda adatta a intonare il canto, sia esso un esaltante epinico o una mesta elegia consolatoria.

E se gli uomini hanno una bella sede — palazzo, villa, città, templi, stadi — cui far riferimento, allora la fantasia ha più giuoco a popolarne il cielo di divinità e a riempirlo d’azzurro. Terra e cielo, uomini e dei convivono così per opera della poesia.

E se poi questa sede è l’Acragas del V secolo, diventa essa la più bella città dei mortali, dove gli dei non disdegnano di scendere accanto agli uomini. Ma a condizione che sia puro il loro animo, generoso il loro cuore, eroico il loro spirito.

Tutto questo ci dice Pindaro a distanza di secoli.

 Tutto questo ci dice Pindaro a distanza di secoli

Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento storia

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