DAVIDE-BRAMANTE-Agrigento-tempio-sospeso
di Nino Agnello
Del famoso poeta greco Pindaro (Cinocefale 518 – Argo 438 a.C.) presentiamo qui cinque odi che riguardano Agrigento e i suoi antichi signori.
PITICA VI per Senocrate (490);
PITICA XII per Mida (490);
OLIMPIA III per Terone (476);
OLIMPIA II per Terone (476);
ISTMICA II per Trasibulo.
Le riportiamo quasi per intero, abbiamo tagliato solo pochi brani meno necessari alla loro bellezza poetica.
Le riferiamo nella elegante traduzione poetica di Ettore Romagnoli e coi relativi commenti. Anche a questi abbiamo apportato, per conseguenza, qualche piccolo taglio, ma non osiamo aggiungere niente di nostro, tanto sono esaurienti sia le delucidazioni mitiche e letterarie, sia le brevi note di carattere estetico : essendo queste più che sufficienti alla giusta intelligenza dei testi pindarici, ci piace avvalerci della fatica dell’illustre filologo (cfr. il volume Esiodo Pindaro Teocrito Eronda, a. c. di E. Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1969), e risparmiare la nostra, che sarebbe, nel caso specifico, assolutamente inadeguata.
ODE PITICA VI
PER SENOCRATE D’AGRIGENTO VINCITORE COL CARRO A PITO
I
Udite! Ché il suol de le Càriti ché il suol d’Afrodite
pupilla fulgente
solchiam : de la terra sonora
cerchiam l’umbilico, ed il tempio
là dove, o felici rampolli
d’Emmeno, o Agrigento che siedi sul fiume,
[o Senocrate,
è pronto, pel pitico trionfo, un tesoro di cantici, estrutto nel grembo selvoso che luccica d’oro, d’Apollo.
II
Né pioggia d’inverno che piombi con impeto fitto, esercito crudo
di nube sonora, né turbine con furia d’avversi lapilli, potrà mai scalzarlo, rapirlo
nei gorghi del mar : la sua fronte fulgente nel sole, la insigne vittoria che cinse, o Trasibulo, nei grembi di Crisa, tuo padre e tua stirpe, dirà, che la dicano, agli uomini.
III
Ed or, su la palma reggendola, ben alta tu serbi
la legge che un giorno
di Riira il figlio, raccontano,
fra i monti insegnava al magnanimo
Pelide, lontano ai suoi cari :
che prima il figliuolo onorasse di Crono, signore dei tuoni e dei folgori dal mugghio profondo : che poi non privasse di simile onore la vita dei suoi genitori.
IV
…………..
V
……Ben questi son fatti remoti.
Ma pur fra quei d’ora Trasibulo eccelle,
seguendo la norma del padre,
VI
e in ogni suo fregio emulando lo zio. Pone freno
di senno a ricchezza :
né ingiusto e protervo fruisce
di sua gioventù : de le Muse
negli aditi, falcia saggezza :
Posìdone, a te che dirigi l’ardor dei corsieri,
s’accosta con ilare cuore : la gaia
sua mente, in simposi d’amici, è più dolce
che il frutto del cribro dell’api.
E’ per Senocrate, fratello di Terone : scritta nel 490, un anno o due prima che Terone divenisse tiranno d’Agrigento. L’incarico di comporre l’epinicio ufficiale fu dato a Simonide che allora toccava l’apogeo della fama; e questa ode pindarica era un di più. Ed è infatti diretta, non proprio al vincitore, bensì al figliuolo suo Trasibulo, amico dilettissimo del poeta. Di Trasibulo viene qui special- mente esaltata la pietà filiale (…). E certo in quei tempi torbidi avrà avuto occasione di dame prova. Ma che poi la esaltazione si debba proprio alla circostanza che Trasibulo avrebbe assunto egli stesso e non affidato ad altri il compito di guidare il carro, come è opinione di antichi e moderni commentatori, non mi par sicurissimo. Importa poco.
I canti che celebreranno questa vittoria son paragonati da Pindaro ad un tesoro — cioè ad un edificio costruito per contenere oggetti preziosi. A Delfi ce n’erano molti; e tuttora si possono ammirare gli avanzi di quello innalzato dagli Ateniesi, dai Sifni, dagli Cnidi. Questo edificio ha una facciata, volta ad Oriente, e la facciata un fastigio, che più d’ogni altra parte accoglie e riverbera i raggi del sole (v. 15). — Il suolo delle Càriti (v. 1) è la poesia L’umbilico, cioè il centro, della terra (v. 4) è Delfi, dove s’erano scontrate le due aquile che Giove lanciò a volo dalle due estremità del mondo. Il grembo selvoso d’Apollo (v. 8) è il suo santuario, scintillante di oggetti aurei e tutto cinto da una selvetta.
Questa ode non ha forma epodica, ma è composta di sei strofe uguali.
ODE PITICA XII
A MIDA D’AGRIGENTO
VINCITORE COL FLAUTO A PITO
I
Te invoco, città di Persefone, città la più bella
[fra quante
albergo son d’uomini, o amica del fasto, che presso
[Agrigento
ferace di greggi, ti levi su clivo turrito : o Signora,
gradisci benevola, e teco si accordino gli uomini
[e i Numi,
da Mida le foglie del serto di Pito gradisci, e lui
[stesso,
che vinse gli Elleni nell’arte cui Pallade
un giorno rinvenne, intrecciando
la nenia feral de le Gòrgóni.
II
………………….
III
La Dea compose quell’aria, ed agli uomini
presente ne fece, la disse canzone
dai capi molteplici; e fosse
compagna all’agon popoloso.
IV
Sgorga essa, dei balli compagna fedel, fra la tenue
[lamina
di rame, e la canna che cresce nei prati cui bagna
[il Cefiso,
vicino a la bella contrada d’Orcòmeno, sacra a le
[Càriti.
Se prospera sorte è tra gli uomini, da pena non mai
[si scompagna.
Ma un Nume segnare oggi stesso può fine alla pena.
[Non s’évita
la sorte. Ma un giorno, giungendo imprevisto,
un bene avverrà che ti neghi,
e l’altro, inatteso, t’accordi.
Nella stessa gara in cui Senocrate vinceva la corsa dei carri, il suo più modesto concittadino Mida trionfava nella gara auletica. E Pindaro ne cantava la vittoria. Questa ode occupa dunque ima posizione singolare fra le altre, composte quasi tutte ad esaltazione di atleti; e si distingue anche dal lato della forma, perché non presenta tipo epodico, ma si compone di quattro strofe uguali.
Come per gli atleti ricorreva a miti eroici, per un musico Pindaro ha scelto un mito musicale. Quando Perseo recide il capo della Gòrgóne, i serpi che ghirlandano il capo della creatura mostruosa e bellissima si divincolano nell’agonia, emettendo lugubri sibili. Atena, che assiste l’eroe, imitando quella funerea sinfonia, compone un’aria, la chiama aria dalle molte teste, e la dona agli uomini, che serva ad accompagnare gli agoni.
Donde origina questo mito? Ai Greci la musica sembrava arte più che ogni altra misteriosa e divina. Maghi, come Orfeo, erano i primi musici : magiche le arie che quelli avevano composte. E si tramandavano, distinte ciascuna da un nome, di generazione in generazione, come cose sacre; e veniva punito chi le alterasse.
Tra queste ce ne dovè essere una detta aria dai molti capi (nómos pollàn kefalàn); e capo avrà voluto dire principio della melodia, tema; e questa aria sarà stata appunto caratteristica per la molteplicità, allora non consueta, dei temi. Oscuratosi, o deliberatamente repudiato il vero senso, il vocabolo capi fu inteso nel significato proprio, e ne derivò questo mito. Bellissimo, e tale che un musicista moderno potrebbe toglierne materia per una composizione sinfonica.
A proposito di Mida e di questa sua vittoria, gli antichi narrarono un aneddoto. Appena Mida ebbe incominciato a suonare, la linguetta del flauto (aulòs : noi traduciamo flauto, ma in realtà era uno strumento a linguetta) si ruppe. Ma il virtuoso non se ne diede per intesa. Seguitò a suonare il flauto come fosse un sufolo, e ciò nondimeno seppe deliziare gli ascoltatori, ed ebbe la palma. La corda unica di Paganini. Gli uomini son sempre gli stessi fanciulli cicaloni.
( )
La città invocata in principio è Agrigento : l’Agrigento ferace di greggi nel verso 2-3, è il fiume omonimo, che scorre presso la città. Di Perseo e della gioviale pioggia d’oro che gli diè vita, tutti sanno. Meno ovvio è il mito di Polidete re dei Serifi, che, impadronitosi della madre di lui Danae, la costringeva a nozze ingrate. Perseo, recisa la testa di Medusa, inforcò Pegaso, volò sull’isola, e, mostrando la testa ferale impietrò il re e tutti gli isolani. Il mito fu largamente sfruttato dagli scrittori di commedie e di drammi satireschi.
20
ODE OLIMPIA III
PER TERONE D’AGRIGENTO
NELLE FESTE OSPITALI DEI DIOSCURI
I
Strofe
Voglio piacere ai Tindaridi amici degli ospiti, e ad
[Elena fulgida chioma,
cantando l’illustre Agrigento,
un cantico, fregio ai cavalli che vinsero a Olimpia,
[levando a Terone. Cosi mi stia presso la Musa : ché, armonico modo
[trovato, di nuovo fulgore costringo
la voce, ch’è luce alle feste, nei lacci di dorico
[calzare.
Antistrofe
Già le corone costrette sui crini reclaman che un
[debito sacro ai Celesti
io sciolga, ed insieme la cetera
dal vario tinnito, ed il grido dei flauti, e di versi
[compagini mescoli
coi modi dell’arte, ed esalti il prode figliuol d’Ene-
[sidamo. E un grido a me Pisa lanciò,
da cui verso gli uomini i canti largiti dai Numi si
[lanciano,
Epodo
verso i mortali a cui l’Etolo, veridico giudice per gli
[Elleni, d’Eracle
seguendo l’antico precetto, componga
fra i crini, ghirlanda sui cigli di glauco lucore,
[l’ulivo selvaggio :
l’ulivo selvaggio che Alcide, dall’onde dall’ombre
[de l’Istro portò,
che fosse alle gare d’Olimpia bellissimo premio.
II
Strofe
Degli Iperborei la gente devota d’Apollo gliel die’.
[La convinse ei, parlando leale. Pel bosco di Giove
un albero chiese che ombrìe porgesse alle turbe,
[corone a prodezza.
Ché a Giove eran già consacrati gli altari : la Luna
[gli aveva dall’aureo carro vibrata,
a mezzo del mese, la sera, già colma l’ardente
[pupilla :
Antistrofe
già dell’Alfeo su le rupi santissime aveva fondato
[dei ludi il giudizio
solenne, e il festivo quinquennio;
ma non di begli alberi il suolo fioria ne le valli di
[Pélope Cronio.
Ei vide che Tesserne spoglio di troppo rendeva il
[giardino soggetto agli sguardi roventi
del Sole. Ed il cuore lo spinse che andasse alle terre
[dell’Istro,
Epodo
dove la figlia di Lato, che sferza i cavalli l’accolse
[quel giorno
ch’ei giunse dai culmini, dai sinuosi
recessi d’Arcadia. Sospinto l’avevano il fato di Giove,
[l’imperio
d’Eucaristio, a cacciare la cerva, dall’auree coma,
[che un di Taigeta
offriva ad Artemide Ortosia, rendendola sacra.
IlI
Strofe
Quella inseguendo, anche vide la terra lontana che
[stendesi di là dagli spiri
del gelido Bora. E ristette
agli alberi innanzi, stupito. E tosto lo invase
[dolcissima brama
di quelli piantare d’intorno la meta che in dodici
[spire
[circondano i cocchi. — Alla festa
qui giunge or, beato, coi figli gemelli divini di Leda.
Antistrofe
Quando egli ascese fra i Superi, ad essi commise
[dirigere il fulgido agone
che saggia il valore degli uomini
e il volo dei carri precipite. — Predico a Terone, ché
[il cuore mi spinge,
e ai figli d’Emmeno, alta gloria. Di Tindaro i figli
[dai vaghi corsieri la porgono ad essi,
perché più d’ogni altro mortale li onorari con mense
[ospitali,
Epodo
e dei Beati le feste osservan devoti. — Se il pregio
[dell’acqua
va sopra ogni cosa, se l’oro val meglio
che ogni altra ricchezza, Terone, movendo dal suolo
[natale, pervenne
ai limiti estremi, toccò d’Alcide i pilastri. Più lungi
[non vanno
né savi, né ignari. Io noi tento. Sarebbe follia.
Tanto questa quanto l’Olimpia II sono ispirate alla medesima vittoria, e composte nel 476. Terone era allora al culmine della sua potenza. Ma la diversità di tono fra le due odi rende ovvia la supposizione che siano state scritte in momenti diversi. La Olimpia II, tutta ombrata e malinconica nella sua divina bellezza, sembrerebbe riecheggiare i tristi momenti che Terone ebbe a passare a causa di Polizelo, di Trasideo, ed anche di Capi ed Ippocrate, suoi stretti parenti, che gli si erano ribellati. Prima che il cielo si intorbidisse sembrerebbe invece composta questa Olimpia III, tutta gaia e festevole.
Essa celebra la vittoria olimpica; ma accompagna insieme una festa celebrata in onore dei Dioscuri e di Elena, loro sorella. (…).
Pindaro asserisce che i Dioscuri proteggono e proteggeranno sempre Terone, perché egli è più che ogni altro mortale largo di simili imbandigioni (40).
Del resto, Terone era stretto da certa affinità coi Dioscuri, fratelli dell’Argiva Elena, perché dal lato materno discendeva da un re argivo, Adrasto. E infatti, i Dioscuri riscuotevano culto speciale in Agrigento.
Parlando dei Dioscuri, Pindaro aveva buon giuoco a parlare d’Olimpia. Eracle, allorché ascese aU’Olimpo, aveva affidato ai Dioscuri la cura dei giuochi da lui fondati; e un altare dedicato ad essi sorgeva nell’entrata dell’Ippodromo d’Olimpia. Così, naturalmente, Pindaro passa da loro a un mito dei primi tempi dei giuochi, col quale è connesso il dilettissimo Eracle.
Questo eroe, una volta, inseguendo, per ordine d’Euristeo, la cerva dalle corna d’oro, giunse agli Iperborei e vide l’oleastro, ignoto alla Grecia. Quando poi ebbe fondati nella Elide, su l’Alfeo i giuochi olimpi, s’avvide che il terreno delle gare era troppo brullo e troppo esposto al sole. Ripensò all’oleastro, tornò agli Iperborei, e li persuase a donargli quella pianta, che desse ombre alla folla, ghirlande ai vincitori. Ché i trionfatori d’Olimpia venivano appunto coronati con olivo selvaggio. E del giudizio dei giuochi era incaricato un uomo d’Etolia — cioè imo degli Elei che Pindaro chiama Etoli perché l’etolo Oxilo ebbe l’Elide in dono dagli Eraclidi.
Pindaro considera questo suo canto come una statua, un ricordo marmoreo : e in questo senso parla di innalzarlo.— Il Dorio calzare (v. 5) è. naturalmente, il ritmo, e, sia pure, il ritmo incarnato in note : e in questa forma deve entrare la materia plastica, la voce. La metafora è strana (…).
Frequenti sono le personificazioni. Le corone reclamano un debito (6) : Pisa lancia un grido (9) : i canti balzano verso i vincitori (14) : il giardino è sottoposto (24) ai raggi del sole.
Preziosi sono i versi 5 – 9, perché ci dicono esplicitamente come erano istrumentati gli epinici. Voci con accompagnamento di cetere e di flauti.
Notevole è poi il pensiero che conclude l’ode, sulla rispettiva eccellenza dell’acqua, dell’oro, della vittoria agonale.
ODE OLIMPIA III
PER TERONE D’AGRIGENTO
VINCITORE COL CARRO IN OLIMPIA
I
Strofe
Inni, che legge date alla cetera,
quale dei Numi, qual degli Eroi, qual dei mortali
[celebreremo?
Pisa è di Giove : le olimpie gare
fondava Alcide
con le primizie
di guerra : ed ora, per la quadriga vittoriosa,
cantar Terone convien, che gaudio giusto è degli
[ospiti,
è d’Agrigento
colonna, savio dator di leggi, fior d’avi illustri,
Antistrofe
che dopo lunghi gravi travagli
giunsero a questa sede fluviale, della Sicilia furon
[pupilla;
e venne il tempo sacro al Destino,
e aggiunse all’insite
virtù fortuna.
Su via figliuol di Rea, Cronìde, tu che proteggi
d’Olimpo i vertici, dei giuochi il fiore, dell’Alfeo
[l’onde,
t’allegra ai cantici,
ed ad nepoti benigno serba la terra avita.
Epodo
Neppure il Tempo, padre del tutto,
far sì potrebbe che non compiuto l’esito fosse
d’opra compiuta, giusta od ingiusta. Ma con la sorte
prospera, nasce l’oblivione. Sottesso il bene,
sottesso il gaudio, giace domato, per quanto incalzi,
si spinge il duolo,
II
Strofe
quando pel cenno del Dio, la Parca
tragga la sorte d’eccelso bene. S’attaglia quanto dico
[alle figlie
di Cadmo. Molto soffrir; ma il duolo
dinanzi ai beni più grandi cadde.
Semèle
Antistrofe
D’Ino, raccontano …
…………..
Epodo
…………
III
Strofe
….su Polinice
piombato al suolo, restò Tersandro,
che fra certami,
fra guerre e zuffe,
riscosse onore. Da tal rampollo quindi risursero
degli Adrastìdi le case; ond’ebbe sua stirpe il figlio
d’Enesidàmo.
Giusto è che cantici d’encomio, e suoni di lire ei goda,
Antistrofe
poi ch’egli stesso vinse in Olimpia;
e a Pito, e sovra l’Istmo,
le Càriti al suo germano,
[ch’ebbe qui simile
sorte, concessero fiori e ghirlande,
premio per dodici
rapidi giri
della quadriga. — Vincer le gare, dai crucci libera.
Ricchezza, quando di virtù s’orna, copia opportuna
porge di molte
bell’opre; e lungi tien rincalzante profonda cura;
Epodo
ricchezza, stella fulgente, luce
per l’uom verissima, quand’ei, godendola, sappia il
[futuro :
IV
Strofe
Ma nella notte sempre nel giorno
sempre, il fulgor del sol mirando, godono i buoni
[la vita immune
d’ogni fatica;
….
Antistrofe
……
Epodo
…….
V
Strofe
……