di Nino Agnello
Ci piace richiamare dall’ombra dell’oblio la produzione poetica di Giuseppe Angelo Peritore (Licata, 6 luglio 1897 – Agrigento, 24 settembre 1982) affidata a « La fonte » e ad « Autunnale », per quello che qui ci interessa.
La raccolta « La fonte » apparve sotto lo pseudonimo di Giselda Cambelli nel 1917 ad Agrigento per « La novissima » editrice, stampata dalla tipografia di Calogero Formica, e contiene componimenti del 1916 e del 1917. Nella prima sezione « Canti d’autunno » troviamo la poesia « Il carro » dedicata a G.A. Cesareo.
Il carro
Lungo la via, un rotolio di carro rompe
il silenzio tra le verdi arcate
dei pioppi in fila ne la fresca sera,
ove docile ancor la capinera
squittinendo rimane e aspetta, aspetta
i meriggi d’agosto… Uggiola un cane,
(forse legato al carro? o a le lontane
Peste de l’uomo su la nuda strada?)
Anima, ascolta! Su la via maestra
è giunto il carrettier, de la ginestra
innalza il canto in meste cantilene
e guarda il del ciel palpita di stelle…
Dove s’avvia quel carro? a le tue belle
memori rive, o fiume d’Agrigento?
A la cerula fonte di Morone,
a i dori templi, o al mar di San Leone?
Non so : solo conosco la mia vita che va
come quel carro a sera o a notte
e non si ferma e non si ferma mai.
Dall’inizio alla fine l’immagine centrale è data dal carro del carrettiere con gli elementi accessori dei « pioppi in fila », della capinera che va « squittinendo », del cane che uggiola. La « fresca sera » mette il giovane poeta in condizione meditativa e lo dispone a quegli assorti interrogativi senza risposta sull’andare del carro. Poi le « stelle » suggerendo le « meste cantilene » al carrettiere preparano l’assorto epilogo in cui l’andare di quest’ultimo e la irrequietezza del poeta si associano nella mesta considerazione della vita come un continuo viaggio.
Non dovrebbe sembrare azzardata l’ipotesi di attribuire a Peritore la paternità dell’immagine del carro-carrettiere che ritorna in Cesareo e in Quasimodo, perché qui è una presenza basilare per il testo, mentre nei due predetti diventa un elemento accanto agli altri. E poi qui pare un’immagine colta dal vero, mentre negli altri due potrebbe essere una reminiscenza, un riferimento letterario. Se così è, la paternità rispetto a Quasimodo potrebbe essere più sostenibile per ragioni cronologiche e per il fatto che intanto Peritore col volume collettaneo « Il poeta dell’umana tragedia edito per L’« Ansia » di Gir- genti nel 1922 aveva dato un buon nome a se stesso e più chiara rinomanza alla poesia di Cesareo fatta oggetto del volume. Quasimodo potè esserne venuto a conoscenza a Messina o quando da impiegato del Genio Civile visse a Reggio Calabria dove riprese i contatti con gli amici messinesi. O potè avere notizia della poesia di Peritore nelle sue visite alla nostra città.
Forse un interscambio ci dovette essere invece tra Peritore e Cesareo, data la vicinanza delle date, in quanto dovette presto stringerei il rapporto tra il discepolo e il professore, tanto che la lirica in questione è dedicata al Maestro.
Si potrebbe supporre che invece sia stato il giovane a subire l’influenza del più vecchio? Ma come la mettiamo con le date, se la sezione cesa- reana « Le parole dell’ombra » — dove si trova la poesia « La valle dei tempii » — porta accanto la data del 1918-19 ed è inclusa nel volume I canti di Pan che esce a Bologna nel 1920? Il volumetto del Peritore esce invece indiscutibilmente prima.
Ma questa potrebbe essere una questione filologica che, in fin dei conti, qui può avere importanza relativa. Quel che è importante intanto è la presenza di elementi agrigentini nel testo : il fiume Acragas, la fontana di Bonamorone, i templi dorici e il mare di San Leone. Compreso lo stesso carrettiere con le sue cantilene, che ne costituisce come l’elemento tipico, che dà un volto inconfondibile.
Inoltre nella quarta sezione Le mistiche sere a pag. 53 leggiamo un altro breve spunto locale :
Io ricordo qualcosa : il mio balcone
chiuso dinanzi a la vetusta valle
de’ templi acragantini,
chiuso e fiorito su la via maestra!
E’ l’immagine consueta della valle coi templi, ma sta pure ad indicare l’indelebilità dalla memoria di un paesaggio di cui si è nutrito, per consuetudine, il sentimento poetico.
E poi ancora a pag. 56 un altro spunto, già caro al nostro :
ima schiera di fumidi cipressi
— i cipressi di Bonamorone —
un balcone fiorito, una finestra
chiusa per sempre in questa via deserta.
La raccolta Autunnale (Formica, Girgenti, 1919) pare tutta intessuta di riferimenti agrigentini ora con dati precisi, ora con espressioni più generiche.
Nella prima sezione Le mistiche sere ripresa dalla raccolta precedente e ampliata, si respira l’atmosfera della città e del suo paesaggio con riferimenti diversi. Oltre ai « cipressi di Bonamorone » (Ne la via del rifugio) troviamo
la campana de l’Itria dolce e solenne
in quest’anima mia
(Sere d’ottobre)
Altrove il giovane poeta accenna alla valle e ai suoi alberi tipici — mandorli e acacie — :
Andiamo laggiù ne la valle
ove fioriscono i mandorli
e le acacie frusciano al vento
(Come in quelle sere di maggio)
dove ci pare interessante il connubbio della valle e dei mandorli prima della istituzione della ben nota sagra del « Mandorlo in fiore », nel riscontro di una fisionomia tipica e inconfondibile della valle.
Un’altra poesia ci riporta ad un altro specifico della città, al suo viale, in una sospesa atmosfera di crepuscolo e di mesto autunno :
In questo lento crepuscolo autunnale,
il viale
s’allunga nel rossore d’un lembo di cielo
…………..
siamo due anime in pena
nel grigiore del viale
…………..
questo viale autunnale
……………
vorrei che tu guardassi, lì, lo sfondo del viale
(Il viale de le passeggiate)
I toni lenti di mesta elegia « crepuscolare » sembrano ridarci lontani e rari momenti di passeggiate silenziose e confidenziali, pacate e assorte, quasi contemplative lungo il maestoso viale della Vittoria, di fronte a cui i rossi tramonti sono un naturale completamento e una finestra spalancata al ricordo, al sogno. Peritore ci è guida coi suoi versi in queste « passeggiate crepuscolari », nel bisogno di ritrovare una perduta intimità e un volto più umano e più amabile della città.
La seconda sezione I canti del Melagrano sembra per intero dedicata ad Agrigento, anzi sembra in essa nata nei suoi nuclei costitutivi e poi ampliata con testi che hanno altra sorgente d’ispirazione. In questi distici elegiaci, scrisse Giuseppe Lipparini nella prefazione, « appaiono nitidi quadretti di Gir- genti e della campagna coi templi famosi ».
Ad apertura troviamo infatti
Rupe Atenea
Ride su l’aspro dorso, Rupe Atenea, Agrigento
ebbra d’azzurro e canti ne la luce del sole.
Grige dormon le case nel solco dei secoli
[ardendo,
gravi di storia e miti, di leggende lontane.
E sonnolenza e pace è qui nella valle dei
[templi :
par che la morte passi con la sua ala di gelo.
Ma sorrisi di verde e canti d’uccelli nel sole
nel tuo tremulo azzurro, cielo d’incanto : vita!
Pure è Novembre!…
Qui lo sguardo spazia dalla rupe alla valle, abbracciando unitariamente, con la vista e col pensiero, il presente — le grige case — e il passato gravido di storia e di leggende. E poi un contrasto tra il silenzio sonnolento dei ruderi archeologici (abbandono, incuria, oblio?) e la vitalità della natura (uccelli, verde, cielo, sole) : lontana intuizione di una immagine spesso ricorrente quando si ha l’illusione di un’eterna primavera nel cuore della valle, pur in mezzo all’indifferenza degli uomini.
Dalla valle risaliamo in alto, entriamo Ne la cattedrale :
Dentro la cattedrale un vasto silenzio, un
[clemente
ritorno a le preghiere, un abbandono d’anime,
e per le anguste ogive, l’incanto d’un cielo
[d’aprile.
Oh fredda solitudine de’ chiostri abbandonati,
oh rigido silenzio nel duomo che à palpiti
[d’ale
e parole di fede, di cieli infiniti;
ma non canti di vita, non miti singhiozzi
[d’amore,
non il pallido viso, né gli occhi tuoi, Maria,
né la tua calda voce — la tremula voce del
[cuore —
nel cuore mio, lontana, nella mia triste vita.
I primi sei versi danno unità ambientale — geografica e spirituale — con un linguaggio consono e omogeneo : silenzio, preghiere, fede e raccoglimento dentro la cattedrale, e fuori incanto d’aprile e cielo infinito : elemento di passaggio gli archetti gotici ad ogiva delle finestrette. E ancora un contrasto misurato dal cuore del poeta : la vitalità della natura e il calore della fede fuori di lui, e la tristezza dentro di lui per la lontananza della sua donna. Restiamo ancora in alto, Nel duomo.
Dentro la cattedrale, da bocche invisibili un
[inno
sale ai profondi cieli, e spirali d’incenso,
come da un’ara occulta, diffondonsi su per
[le volte :
sembra, nel vespro, il tempio simile a ima
[moschea.
Come solenne è l’ora! E come da’ secoli
[emerge,
in un’unica voce, l’inno a l’umana vita!
O tu, Fedra marmorea, non senti nel gelido
[sasso
un nuovo alito caldo di trionfante amore?
Qui si ripete illusoriamente, ma anche si rovescia, la situazione del componimento precedente con la solennità dell’ora contemplativa nel silenzio della cattedrale : al poeta pare di assistere a intonazione di inni e respirare profumo d’incenso, nel raccoglimento vespertino. O nel trionfo dell’amore? Così pare dall’ultimo distico, dove l’invocazione a Fedra del noto sarcofago — oggi nella chiesetta di San Nicola — rivela la richiesta di un testimone, di una partecipazione sensibile alla gioia ritrovata del poeta. Si rovescia la condizione espressa nella seconda parte del testo precedente : l’amore ha il suo appagamento, per cui tutto l’ambiente attorno sembra animarsi e sciogliere un inno alla vita, anche « da bocche invisibili », « come da un’ara occulta ». Anche la Fedra marmorea si riscuote al calore della poesia, più vissuta però che espressa.
Poi scendiamo verso il centro cittadino e incontriamo
Villa Garibaldi
Quale divino incanto fra gli alberi e i fior
[de la villa,
ebbra di lieti cori ne la fumea del vespro!
Lodano tutti i fiori la pace diffusa pe’ cieli;
parlan di dolci amori e di tempi lontani
quelle fresche fontane che a vespero impor-
[pora il sole,
parlan canore e piane, mentre dal Belvedere
io miro la pianura co’ templi che sembran
[vegliare
la città su la rupe e il dolce mar natio.
Siamo ancora nel godimento estatico delle ore vespertine, ore care al giovane Peritore, che si rivela un sincero amante della natura e dei paesaggi dove ci siano alberi, fiori, cielo, fontane da ammirare. Assenza umana e presenza della natura. Non possono mancare i templi a metà strada tra il mare e la rupe, quasi una saggia custodia coi loro sacri richiami e una porta sempre aperta per un viaggio nel passato.
La villa Garibaldi, purtroppo, è tutta scomparsa nel passato.
Dal Belvedere si può gustare anche una
Sera nel viale Cavour
Oh quell’unica stella vagante pe’ cieli infiniti
nel silenzio notturno e la linea di mare!
E’ un altro momento di vita contemplativa che offre la città col silenzio della notte vicina sotto le stelle e il mare a poca distanza : una sottile « linea d’azzurro » sembra tenerci sospesi tra cielo e terra, tra l’al di qua e l’al di là. Al centro di tutto il « cuore » del poeta in un tratto silenzioso della città.
Poi scendendo più giù, ci fermiamo anche noi alla antica fontana di
Bonamorone
Qui sta placida fonte, tremante di pallida luce:
lembo d’azzurro su la via de’ templi.
Come palpitan l’acque in questo tramonto
[di luglio,
sotto i rami di gelso, sotto il tuo cielo, Patria!
Quivi il pastore addusse — con l’anima aperta
[al lavoro —
la propiziarne mandra e sognò biade e viti.
Quivi, di sera, vengono, al lume di tremule
[stelle,
le anime a dissetarsi; quivi l’onda de’ secoli
trae la pura storia e nel ritmo arcano de’
[popoli,
canta de l’urbe antica la ben nascosta vita.
Ancora un tramonto e il caldo di luglio fanno fermare il giovane poeta al fresco della fontana, come i pastori delle varie generazioni vi condussero i loro animali col cuore speranzoso mentre compivano sacrifici propiziatori. Probabile l’eco carducciana dell’ode Alle fonti del Clitumno (vedi il componimento La poesia del Carducci, Modena, 1937 e 19492). La conferma dell’antichità della fontana ci è data dalla tanta storia che, con « ritmo arcano », si è svolta attorno ad essa. Lo scorrere dell’acqua suggerisce al poeta il fluire dell’« onda dei secoli ».
Quindi una sacra reverenziale presenza, Bonamorone, a metà strada tra la città e i templi, tra il nuovo e l’antico, tra la vita presente e la « nascosta vita », tra le anime dei vivi e quelle dei trapassati, se « le anime » che di notte vengono qui a dissetarsi può alludere al vicino cimitero. L’acqua che continua a scorrere è la storia che seguita a fluire : passano gli uomini con le loro vicende, coi loro riti e i loro sogni, ma restano le cose di lunga durata come sacre presenze, sacre divinità ctonie.
E poi scendiamo anche noi lungo il viale dei templi fino al fiume eponimo,
Su l’Acragas
Anima stanca, vieni sul fiume che parla di
[storia :
lì troverem l’oblio, l’unica pace : amore!
Alto il silenzio tiene quei luoghi di mistica
[quiete,
sacri a la gloria eterna, sacri a la nostra vita.
Non Qui venimmo un giorno — prendendo il
[viale de’ templi —
a ricercar l’oblio, dopo un lungo cammino?
Anima stanca, vieni : in dolce colloquio
[d’amore,
contemplerem la vita, la vita che non è,
e a l’ombra de gli ulivi, ne’ canti de’ sacri
[poeti,
sentiremo aleggiare i numi del passato.
Qui sembra ripetersi l’emozione di prima, dalla stanchezza alla pace, nel bisogno del raccoglimento e di un dolce colloquio. Ancora colloquio ideale tra la vita presente che stanca e l’oblio della storia lontana, che può avere ancora il suo fascino tramite la voce dei poeti e l’ombra degli ulivi, i testimoni di una storia silenziosa di lunga durata dentro la quale annega ogni elemento transitorio. Anche qui l’acqua dell’Acragas — come la fonte di Bonamorone — scandisce il lento fluire del tempo, il ritmo della «storia », mentre il fiume resta come un nume tutelare assieme agli ulivi e ai « sacri poeti ».
Anche Giuseppe Angelo Peritore, cercando imo spazio per sé, per la sua poesia, per il suo raccoglimento meditativo, per la sua anima stanca, ha saputo dare ampio spazio ad Agrigento dalla rupe alla valle, dal tempio cristiano a quelli pagani e attraverso ville e viali, fissandola nei suoi tratti inconfondibili per chi volesse riviverne la storia non tanto con le tappe delle pietre e dei ruderi, quanto con un ritmo di vita interiore, che significa coscienza di ima storia interiorizzata, orgoglio e amore del proprio passato.
Dobbiamo essere grati a G. A. Peritore, se con la sua produzione in versi ci ha fatto ripercorrere tanti luoghi della città, riportandoci agli inizi di questo secolo e a luoghi cari e consueti, alcuni dei quali scomparsi per sempre.
Una cosa risalta in maniera singolare : non è il solito paesaggio storico-archeologico del turista che noi rivisitiamo con lui, ma tanti luoghi comuni e importanti che ci riportano dentro l’abitato (il duomo, l’Itria, il Belvedere, Villa Garibaldi, la via maestra, la passeggiata o ex viale Cavour, Bona- morone) e anche fuori (il fiume, i templi, San Leone) : e non c’è la nostalgia del passato come tema dominante, ma la voce di un contemporaneo, un poeta che annota le emozioni del presente in cui vive.
La nostalgia in Peritore verrà dopo, nel dicembre del 1959 quando scriverà nel suo diario questa suggestiva
VEDUTA DI AGRIGENTO
Un cielo vasto, azzurrissimo, sembrava si compiacesse a confondere ogni cosa lontana abbagliandola, e a far spiccare, cariche di colore, quelle vicine : come se l’azzurro si rovesciasse nel paesaggio, risvegliandolo.
I giardinetti all’ingresso avevano questi toni del cielo vicinissimo, e nel verde disordinato delle piccole aiuole tinte scure che ne facevano risaltare il rigoglio sotto il sole di agosto.
E per noi che li avevamo visti tutti i giorni in anni lontani, avevano ora un’apparenza più trascurata. Non potemmo cogliere — come allora — lo stridere allegro e il girotondo delle rondini fra Porta (di) Ponte e i giardinetti appena svegli dalla calura. Di faccia, più lontano, la massa quadrata di S(an) Vito, su cui torno tomo, ai piedi, ramificano erbe e sterpi che allora (circondavano) i vialetti in salita della Villa Garibaldi; e su una proda il boschetto delle ginestre e più giù, in un angolo, la vaschetta dei pesci rossi (dove) sognammo e immaginammo da giovani chimere vane, esili figure. Per chi torna ad Agrigento dopo anni di lontananza, anche l’aria sembra mutata : non i luoghi soltanto. Ma è sempre lo stesso azzurro che fa tanto male al cuore e sembra assalirci col suo ardore dimenticato.
I luoghi piangono dentro di noi come memorie spente e con i nostri primi tentativi artistici. E se un colore rimane identico per sempre è questo azzurro che scende fra noi (e ci fa pigri), sulle case, sulla Rupe illustre, negli orti, negli aranceti, sulla fontana, laggiù, di Bonamorone, sul ponticello in ferro che subito muore in un anfratto del terreno e si congiunge alla strada nei pressi del Caos di Pirandello a Villa Seta.
* * *
Abbiamo raggiunta la città direttamente dalla via dei Templi, ora asfaltata e lucida, un tempo era del colore della polvere, ed era arida come il dorso d’un serpente rimasto da secoli ad essiccare al sole; e fremiti d’ogni cosa e cicale si confondevano fra un lato e l’altro dello stradone in salita, tenendo
nascoste passioni e a noi concedendo un’illusione di canto nella campagna solitaria. Nell’aria, d’un tratto, si levavano canti e nenie chissà da quale angolo : forse da quel muretto a secco, da quella piega d’un folto d’alberi o da presso lo specchio del biviere di Bonamorone : o forse dalla macchia scura del Cimitero dove gli amici riposano sotto lo stridore lento delle cicale e il lamento del chiù.
* * *
Noi abitavamo in una strada (via S. Girolamo, 92, n.d.r.) tutta svolte e lunga nella sua stramba architettura; di fronte ad una chiesetta (Madonna del Soccorso, detta Badiola, n.d.r.) addossata, stretta stretta e un po’ rientrata, ad un vecchio monastero (non esiste più dalla seconda metà degli anni Venti, n.d.r.), vuoto e decrepito. La Storia di una capinera mi venne in mente dopo : forse mi viene in mente solo adesso, per tanta letteratura che mi si è caricata addosso e il vizio più assiduo dello scrivere (come ora che annoto queste impressioni, malgrado dicano qualcosa solo a me che vissi ad Agrigento come in un lungo sogno : ed ora non è più. E perché fu da lì che presi il volo per altri lidi e lì esiste ancora la cameretta dove scrissi le mie lettere più lunghe ed acerbe a Cornelia).
Il monastero è stato abbattuto e al suo posto sì apre un piccolo spiazzo da cui si mira più larga striscia di mare; cosicché la strada si apre da una parte sul panorama stupendo, e dall’altra finisce in un intrigo di viuzze che salgono alla Cattedrale normanna.
(dalla rivista Ipotesi 80 n. 10, giugno 1984)