di Nino Agnello
Accanto alla imponente statura poetica del cantore greco, i poeti latini, legati in certo qual modo ad Agrigento, recitano nei confronti di essa un ruolo molto minore, di seconda mano, anche perché le loro notizie hanno l’aria della dotta citazione letteraria, del riferimento indiretto, più che della testimonianza diretta come esperienza vissuta.
Forse soltanto GNEO NEVIO (Capua 270 – Utica 200 a.C.?) sentì direttamente il fascino della Agrigento greca, se è vero che, prendendo parte alla prima guerra punica, si trovò qui di passaggio. Infatti gli studiosi sono concordi nell’attribuire un noto frammento del suo poema epico « Bellum Poenicum » alla descrizione del frontone del tempio di Zeus. Ecco :
Inerant signa expressa, quomodo Tirani, bicorpores Gigantes magnique Atlantes Runcus ac Purpureus filii Terras.
(Vi erano rappresentate figure, come i Titani i Giganti dalla doppia natura e i grandi Atlanti, Ronco e Purpureo, figli della Terra)
(trad. Armando Salvatore)
Ed aggiunge Enzo V. Marmorale (cfr. Naevius poeta, a cura di E.V. Marmorale, Firenze 1953, riportato da A. Salvatore nella sua antologia Hutna- nitas litterarum, Napoli 1968) : « Si tratta della descrizione di una parte del tempio di Zeus in Agrigento, cioè delle sculture del frontone orientale e delle enormi figure virili che, assai probabilmente nell’interno, facevano da sostegno ai conci fra colonna e colonna ». Anche A. Rostagni (Storia della letteratura latina, Torino 1964, voi. I, pag. 117) parla di riferimento alla Gigantomachia scolpita nei frontoni del tempio e alla caduta di Troia. Ettore Paratore (Storia della letteratura latina, Sansoni, Firenze, 1962, pag. 31) precisa meglio :
« … sui frontoni del tempio di Zeus Olimpio ad Agrigento era effigiata anche la scena della distruzione di Troia; da questa Nevio, che, combattendo ad Agrigento nella prima guerra punica, avrà contemplato le sculture sul frontone, avrà tratto lo spunto per inserire nel poema la narrazione dell’episodio leggendario… La digressione avrebbe avuto inizio, perciò, dalla presa di Agrigento ad opera dei Romani (262 a.C.) ».
Il dettaglio erudito, se non ci piace per la sua presentazione poetica, ci fa rimpiangere però una perduta ricchezza archeologica, che doveva essere importante nell’impianto architettonico e nella esecuzione scultorea.
LUCREZIO (94-50 o 98-54 a.C.) ci parla di Empedocle e di alcuni aspetti naturali e mitologici della Sicilia (De Rerum natura, I, w. 716-7481, ma non ci dice niente di Agrigento. Usa solo l’aggettivo « Acragantinus » alla greca, riferito ad Empedocle. Il fatto è comprensibile, perché a Lucrezio non interessava la città, né la conosceva di persona, bensì interessava il suo filosofo. Certamente ci avrebbe fatto piacere se, invece che della Sicilia, avesse parlato di aspetti e leggende della nostra città, come omaggio più pertinente ad Empedocle, che lui tanto apprezza ed elogia.
Una citazione di ghiotta curiosità ci riferisce invece il poeta VIRGILIO (70 -19 a.C.) :
Arduus inde Acragas ostentai maxima longe moenia, magnanimum quondam generato!
[equorum.
CEneide, III, w. 703-704)
(Di poi l’alto Agragante ci mostra da lontano le mura grandiose della città, un tempo madre di generosi cavalli).
Il brano si riferisce al racconto fatto da Enea alla regina Didone, suo ospite a Cartagine, delle varie peripezie dalla partenza da Troia fino al naufragio presso le coste africane. Qui Agrigento viene menzionata come vista da Enea da lontano, costeggiando la Sicilia; ne mette in evidenza due elementi : l’acropoli e le mura di cinta come caratteristiche peculiari, ancora evidenti al tempo del presunto viaggio di Enea.
Qui, se non sembrasse irriverenza nei confronti del grande poeta, ci verrebbe istintivo osservare che Virgilio avrebbe fatto cosa più esatta riferire l’avverbio « quondam » anche alle mura, se è vero che esse furono distrutte nel 249 a.C. dal cartaginese Canalone (cfr. Picone, Memorie Storiche Agrigentine, Girgenti 1868, pag. 205), prima che si concludesse la prima guerra punica con la cessione di tutta l’isola ai Romani. Ma non dovremmo cercare tanta precisione in poesia, per cui la questione si può accordare dicendo che Virgilio attribuisce al suo eroe Enea la vista delle mura ancora esistenti durante il suo passaggio, e a se stesso, come intromissione di autore, l’osservazione successiva « quondam generator equorum ».
La quale ci sembra un terzo elemento, di natura erudita se vogliamo, ma comunque un’attribuzione di merito e di gloria, che non si poteva vedere ma solo ricordare. La fonte di questo dato dovrebbe essere Pindaro, sia pure mediato da poeti epici anteriori a Virgilio (Nevio, Ennio) a noi non pervenuti integralmente. Virgilio non poteva evitare una lode ad ima città che, assieme a Siracusa, era stata il centro più glorioso della colonizzazione greca e poi della conquista romana durante la prima guerra punica.
Questo dato erudito, questo vanto dell’antica Acragas, lo ritroviamo anche in SILIO ITALICO, un poeta epico del I secolo d.C. (25-101 d.C.), che lo avrà attinto indubbiamente a Virgilio.
Ecco, per intero, il brano che riguarda Agrigento :
… Altus equorum
mille rapit turmam atque hinnitibus aera
[flammat,
Pulveream volvens Agragas ad inania nubem.
Ductor Grosphus erat, cuius caelata gerebat
taurum parma trucem, poenae monimenta
[vetustae.
Ille, ubi torreret subiectis corpora flammis, mutabit gemitus mugitibus; actaque veras credere erat stabulis armenta effundere voces. Haud impune quidem; nani dirae conditoi
[artis
ipse suo moriens immugit flebile tauro.
(Puniche, XIV, w. 208-212)
(L’alto Acragante trascina una schiera di mille
[cavalli
una nube di polvere.
Comandante era Grosfo, il cui scudo cesellato
portava un toro feroce, ricordo di antico
[supplizio.
Esso, tutte le volte che bruciava i corpi con le
fiamme appiccatevi sotto, mutava i gemiti in
[muggiti,
ed era possibile credere che armenti, condotti
[via
dalle stalle, emettessero vere voci.
Non impunemente in verità, giacché l’inven-
[tore di
quell’orribile strumento muggisce flebilmente
morendo egli stesso dentro il suo toro).
Qui sono due le tradizioni ricordate; la prima è quella di Agrigento collinare (accogliamo il testo dell’edizione critica teubneriana che preferisce « altus » accanto a forme collaterali di « altor »), allevatrice di cavalli di buona razza, visti, con ardita
immagine, liberi e in corsa sfrenata mentre sollevano al cielo una nube di polvere confondendo tutto nell’aria, accesa dei loro nitriti. (Di questo particolare, crediamo, si ricorderà Quasimodo). Tutto questo risponde a quanto ci è stato tramandato dai poeti greci — Pindaro, Simonide —, alla leggenda delle gare olimpiche e alle stalle di Gellia.
L’altra tradizione, riproposta attraverso lo scudo cesellato, che è un vecchio espediente dell’epica classica, è quella del toro di Falaride, presente in tutti gli antichi narratori di aneddotica e di « rerum memoriabilium » come Valerio Massimo, e la cui eco è giunta presso autori moderni se un cenno si può leggere in Dante (Inf. XXVII, w. 7-12) e nel racconto di Edgar Allan Poe « Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma » (in E. A. Poe, Racconti straordinari, grotteschi e seri, De Agostini, Novara 1957, pag. 51).
Il tiranno Falaride (VI sec. a.C.) avrebbe fatto morire atrocemente, per primo, dentro il mostruoso toro lo stesso artefice, l’ateniese Perillo; anche per tale metodo di tortura sarebbe passato alla storia con la qualifica di cattivo, dando così al suo appellativo il significato con cui oggi comunemente s’intende il termine « tiranno ».
Qui non intendiamo riprendere tutti i punti della questione riguardante Falaride e la sua presunta tirannia, dato che ampia discussione ne fa il Picone (op. cit., pagg. 48-65), con il tentativo di demitizzare l’esecrabilità del noto tiranno.
Noi, per parte nostra, saremmo tentati di accogliere le sue argomentazioni che tendono, con una certa fondatezza, a ridimensionare la terribilità della leggenda dell’infausto toro, e a riportarla nell’alveo di una dimensione storica più credibile e in ima politica, se non nobilitante, almeno di progresso civile, nel superamento di assurdi metodi di tortura e di antropofaghe e sanguinarie divinità (Minotauro e simili), di arcaica derivazione mitica o mitizzata.
Più lunga, più nobile e più letterariamente utilizzata è la tradizione di Agrigento allevatrice di cavalli, che passa così anche attraverso Silio Italico, come eredità di antico vanto.
Virgilio e Silio Italico dunque sono il veicolo di una antica tradizione acragantina, che indubbiamente risale più al periodo greco che a quello romano, se Virgilio è più preciso nell’usare quell’avverbio temporale « quondam » — eliminato da Silio Italico come ormai superfluo — che suona come un rimpianto e un segno di decadenza.
Certamente, dopo la conquista romana, Agrigento aveva perduto molto dell’antico splendore, diventando città di lontana periferia.
L’immagine dei cavalli in corsa lungo la pianura, che ritroviamo in Quasimodo, risale indubbiamente a Pindaro, ma passa anche attraverso i poeti latini.