Lanza Francesco: Storie e terre di Sicilia
Il suo colore è il rosso arenario come quello di Siracusa era il bianco dei calcari. Nelle strade la luce resta sospesa e più chiara, sgorgata continuamente dal cielo, nelle piazze gli alberi hanno un senso fluido e diffuso di verde, come dopo lo scrosciare d’una pioggia, all’aprirsi del panorama l’aria vibra di lucentezze marine. Il primo incanto è in questa sovrapposizione e distacchi di toni.
Dalla grande balconata sul mare si vedono le nuove costruzioni sulla balza appiattirsi e confondersi nel colore universale della pietra e del terreno sotto il sole sfavillante; gli olivi sacri a Minerva, i mandorli, le palme e le agavi appaiono sommersi nel rapido digradare della campagna.
Dall’altra parte la città s’ammassa nel confuso groviglio delle strade e delle piazze, sovrastate dai campanili e dai palazzi come in una stampa. Anche qui l’antico e il moderno si succedono con un’armonia nativa e consueta: accanto ad un antico leone di pietra o a un muro millenario un bar può mostrare, senza mancare di naturalezza, le vetrine piene di soldati e di foreste di zucchero e di frutti di pasta reale imitati alla perfezione.
E’ per salite quasi fuori mano e incassate fra rustiche costruzioni, mentre le popolane s’affollano sulle soglie e stormi di bimbi vocianti ci fanno nel miglior modo gli onori di casa, che si va al Duomo. Nelle navate la luce piove pigra dall’alto, fluttua come un lieve vapore opalescente, lasciando in fresche zone d’ombra l’interno, giunge appena e si smorza nella sagrestia dove nei grandi armadi le dalmatiche, le stole e i piviali, accumulati da secoli, hanno opachi splendori di oro, d’argento e di porpora; in quella più bianca e aerata dell’aula capitolare il grande sarcofago greco mostra nel perfetto bassorilievo il tragico fatto di Fedra e d’Ippolito; in un canto, inconsolabile per l’eternità, il cane fedele col lunghissimo muso sulle zampe piange la morte del padrone, mentre la regina e matrigna effonde invano sul fazzoletto di marmo, sull’insensibile seno della nutrice, la sua torbida smania.
Ai Templi, sul limite sereno e silenzioso del mare, il colore è così denso e immediato che sembra posticcio, come dovuto, attraverso il tempo, a uno strato di stucco dipinto. Con le neutre visioni delle cartoline illustrano ancora negli occhi, è questa una sorpresa che lascia interdetti fino all’ultimo. Vien voglia di passare l’unghia sulle pietre così facili a sgretolarsi per trovare una giustificazione al sospetto e alla curiosità. Tutto del resto ha l’aria di essere preparato e combinato con amabile calcolo, non solo per i turisti, ma anche per ritrovo, trattenimento e convegno dei cittadini sensibili, delle ragazze e dei giovanotti che vengono in comitiva a godersi con intenzione il tramonto e il chiaro di luna di classica importanza.
Sparse con accorgimento tra i poderi coltivati e le ville, queste zone di proprietà nazionale hanno sempre qualcosa di privato e d’agreste che fa alla mano l’imponderabile gloria del passato, e i mandorli dalla loro parte contano per l’abbellimento che daranno allo spettacolo al tempo della fioritura. Le rovine sono troppo impeccabili e conservate per esser tali e faranno piuttosto pensare a una riesumazione scenica: i custodi in berretto gallonato possono chiacchierare con le donne che s’affacciano ai cancelli delle ville colle mani sotto il grembiale, le colonne e le gradinate sono perfettamente indicate per i gruppi fotografici.
Nel tramonto, la città e il colle sono una sola vampa; dagli intercolunni del tempio della Concordia si vede il disco incandescente del sole che si tuffa nel mare, spegnendosi lentamente. L’ultimo raggio verde, che qualcuno attende ad ogni costo, si confonde nei colori della sera. Nell’ombra che scende, mentre le zanzare ronzano nell’aria e lontano s’accendono di colpo le lampade elettriche come un bianco fuoco d’artificio, si resta sull’erba o sui gradini in contemplazione.
Le fanciulle, cedendo alla suggestione dell’ora, mormorano tenere parole all’orecchio dei cavalieri; una dal dolce e ardente profilo bizantino rimprovera al suo Alvarado il ritardo all’ultimo convegno.
La luna che si leva, pallida e gonfia fermandosi sugli olivi, è la prova migliore che non ci eravamo ingannati: anch’essa è fatta apposta per l’occasione.
Invano, in alto, la città si rianima, la folla si riversa nelle vie tortuose dai classici nomi, i bar sono pieni, le vetrine scintillano, gli ottimi borghesi comprano i giornali arrivati coll’ultimo treno, e le ragazze dai fianchi leggeri e le forme piene d’una vaga grazia ellenica, passeggiano lentamente, tenendo moltissimo alla loro aria cittadina.
A notte tarda, i bimbi che si sono visti a stormi per tutto il giorno, sorridono in sogno, le belle si fanno a piè scalzi alla finestra per ricambiare gli ardenti sospiri agli innamorati, un’aura demografica, nel chiarore lunare, avvolge la città. I turisti romantici, a passi furtivi come amanti che vanno all’appuntamento, si recano nuovamente ai Templi, a sognare a occhi aperti tra le colonne e a riempirsi l’anima d’una nobile malinconia.
(Lanza Francesco, Storie e terre di Sicilia, Palermo, 1953, pp. 126-129).