di Mariano Pardo
La mia limitata cultura non mi consente di descrivere con stile eloquente tutta la vita vissuta in questa settimana di guerra che si è combattuta in territorio agrigentino.
Sono ancora sotto l’oppressione preoccupante di tali giorni, quindi debbo imporre alla mia mente un grande sforzo per racimolare tutti i particolari delle vicende trascorse, raccogliere le idee e compilare queste brevi memorie, colla speranza di essere compreso e con il vivo desiderio di conservarlo per i miei figli.
10 luglio 1943 Sabato
Sono circa le ore 3 dopo la mezzanotte.
Il mio sonno è interrotto da un confuso vocio proveniente dalla strada. Non sapendo di preciso che ora sia, penso possa trattarsi delle solite chiacchiere di donne per qualche frivolo caso successo nel vicinato, ma tale vocio persiste e si sente anche il calpestio della gente che frettolosa attraversa la strada.
Mi accingo a vestirmi per informarmi dell’accaduto, quando un concitato vocio sulla scala di mia abitazione attira di più la mia attenzione. Sento bussare. Chiedo chi sia e mi risponde la voce tremante di Stellina, la fidanzata di mio figlio Pippo. Comprendo che qualcosa di strano doveva essere accaduto e, mezzo svestito, vado ad aprire. Trovo tutta la famiglia di Stellina, la quale con parole turbate, mi comunica che, poco prima, il suono delle campane a stormo, aveva annunziato di qualche cosa di grave doveva essere accaduto.
Non le avevo intese, ma riportandomi al contenuto di un manifesto affisso a cura del comando superiore delle forze armate della Sicilia, pressoché già siamo in stato di emergenza.
Le truppe dell’esercito di occupazione dovevano essere sbarcate in Sicilia e, probabilmente, nella spiaggia della nostra provincia. Per nulla impressionato, infondo a tutti calma e coraggio, esortandoli di ritornare a casa perché, a mio parere, i ricoveri dovevano essere affollatissimi e privi di sicura garanzia ed anche perché per il momento non credo ci sia un imminente pericolo. Ritornata un po’ di relativa calma, cado anch’io a letto, però non posso prendere sonno.
Verso le ore sette esco di casa per accudire ai consueti acquisti per il fabbisogno familiare e poscia, se del caso, recarmi in ufficio. Per strada la vita procede relativamente normale. Manifestini attaccati alle cantonate annunziano che effettivamente siamo in stato di emergenza.
La gente, a piccoli crocchi commenta, si capisce ognuno a modo proprio; qualcuno anche dice che Licata era stato uno degli obbiettivi di sbarco. Sono circa le ore dieci ed il rombo di motori di aeroplani ci fa nascondere. Si odono gli scoppi delle bombe. Cessato il primo momento di panico, tutti ritorniamo per la strada e si apprende, con raccapriccio,che delle case di via Porcelli sono state colpite e che qualche vittima è rimasta sotto le macerie. Il resto della giornata passa calmo. E’ sera. Dopo avere speso qualche parola d’incoraggiamento verso i più paurosi, vado con i miei a letto, non nascondo con qualche preoccupazione.

11 luglio Domenica.
Tutto procede normale. Le notizie raccolte per strada sono, come in tutte le contingenze, diverse; sono in …. E tutti la sanno a modo loro. Qualcuno, atteggiandosi a persona bene informata, dice che gli occupanti, dopo essere sbarcati in diverse località della Sicilia, compreso anche Licata, sono arrivati a Naro e Palma di Montechiaro; qualcuno, più sapiente, dice anche a Canicattì. Si dice pure che il combattimento si svolge verso Torre di Gaffe, una ventina di chilometri da noi. Però il rombo del cannone non si percepisce. Qualche aereo alleato passa.
I nostri apparecchi e quelli tedeschi sono spariti dalla circolazione, non se ne vede nemmeno uno per curiosità; sembra che l’Italia sconosca addirittura tale macchina bellica. Tutta la giornata passa così, indecisa. Sono circa le ore 22, vado regolarmente a letto, però questa volta indeciso e turbato. La mia mente vaga in cerca di idee – chi sa quali ! Nel dormiveglia percepisco il respiro affannoso di mia moglie e quello calmo e sereno della mia bambina. Per me quella notte è una eternità, ma passa lo stesso. E’ giorno, mia moglie si alza turbata, ma mia figlia Mariuccia dorme profondamente, forse sogna angioli e fiori.

12 luglio lunedì.
Sono circa le ore 7.30 esco di casa per i soliti acquisti. Mi reco nella bottega del mio fornitore di pane ai quattro canti della Bibbirria che trovo chiusa. Mi indugio qualche istante in quei pressi, quando sento un fragoroso rombo di motori che annunzia la presenza di aerei. Un fuggi fuggi generale. Durante la fuga scruto il cielo e ne osservo verso Est molti, forse una quarantina, che proseguono in perfetta formazione verso la località dove ero io ed a quota relativamente alta. Mi riparo dentro la prima casa che trovo aperta, quella di una donna che vende verdura, comunemente chiamata la pecoraia.
Assieme con me si rifugiano: una donna in istato interessante, due uomini che non conosco e tre granatieri che per caso si trovavano a passare. Faccio appena in tempo a ripararmi, quando sento lo schianto delle prime bombe. Ci rannicchiamo tutti in un sottoscala chiedendo aiuto a Dio. Il fragore di altre esplosioni più vicine ci paralizza tutti. Madonna mia che fracasso ! Una bomba provoca il crollo di un palazzo a pochi passi da dove ci troviamo noi, un’altra bomba sganciata immediatamente dopo, cade su un altro palazzo a qualche passo dopo i noi. Ne segue un fracasso provocato dal crollo delle case. Un mucchio di rovine si abbatte sulla strada ostruendo la porta d’ingresso della bottega dove mi trovo rifugiato. Restiamo completamente al buio e soffocati dalla polvere dei calcinacci. Ho poca speranza di salvezza credendomi privo di scampo. Rivolgo il pensiero verso la Famiglia che dispero rivedere. Ho avuto l’impressione di essere sepolto vivo e di morire asfissiato. Passato però il primo panico, quei bravi salvati, giovani sani e robusti, a tentoni raggiungono la porta che per fortuna cede subito e, con l’energia della loro giovanile forza, aprano un varco fra le macerie. Esco di lì dentro come intontito e via di corsa a casa per raggiungere la famiglia.
A due a due salgo i gradini di casa, chiamo ad alta voce e mia moglie mi risponde dalla strada, è spaventata e piangente, aveva la mia piccola accanto, temeva per la mia sorte, anche lei aveva passato un brutto momento. Una bomba aveva colpito una casa di fronte la mia. Vetri rotti, molti calcinacci, grande spavento, anche la famiglia di Stellina, pure spaventata, aspetta il mio arrivo. Eravamo tutti sani e salvi, mi rassereno ed infondo loro coraggio. Qualche donna di lì vicino è con loro rannicchiata. Salgo a casa, racimolo qualche fazzoletto, un mezzo chilo di pane rimasto il giorno precedente, un poco di pasta, un paio di coperte, e via di corsa tutti assieme in cerca di sicura dimora.
Andiamo per le campagne. Gli stradali sembrano un pellegrinaggio, donne spaurite che trascinano bambini, parecchi dei quali scalzi e piangenti. Uomini sconvolti che portavano a spalle qualche masserizia. Io sembravo un facchino di piazza, avevo una valigetta e due coperte sulle spalle, sudavo maledettamente.
Qualche pattuglia di nostri soldati ci infondeva coraggio, ma noi camminavamo a passo serrato verso ignota destinazione, chi sa verso dove, forse in bocca alle bombe, forse incontro alla morte, ma per noi in cerca di salvezza. Ad ogni apparire di aeroplano ci buttavamo tutti per terra o nelle cunette per sottrarci ad eventuali mitragliamenti. Siamo arrivati in contrada San Giuseppello e ci inoltriamo per le campagne perché lo stradale ci sembra inospitale. Si va anche in cerca di una famiglia di conoscenti, certi Riggio, sfollati precedentemente e che ci dicono trovarsi in quei pressi, ma ci è stato impossibile trovarli. Si cammina automaticamente, senza meta in cerca di qualche posto che ci sembra un po’ sicuro, essendovi in quei giorni presso la polveriera la mia famiglia, quella di Stellina e altre donne del vicinato, certa Anna e Assunta, con un mucchio di bambini di diverse età, in tutto 16, ci stacchiamo circa duecento metri dalla stradella, quando a breve distanza da noi vedo apparire una dozzina di apparecchi a doppia fusoliera che incominciano a roteare in una vallata lì vicino, forse un centinaio di metri da noi, credo in cerca della polveriera,dalla quale eravamo distanti pochi metri. Ci buttiamo tutti per terra agli argini di un vigneto. I più fortunati trovano come riparo una specie di cunetta, qualcuno sotto le foglie delle viti.
Gli apparecchi, dopo essersi abbassati in picchiata, seminano una valanga di bombe e poscia, a volo radente, raffiche di mitragliatrici lacerano l’aria. Noi sempre lì inchiodati per terra fermi come sassi, trattenendo anche il respiro per timore di essere scoperti. Passano così in trepidazione una decina di minuti, gli aerei si allontanano e noi tutti, zaino in spalle ripigliamo la nostra dolorosa marcia. Si arriva alla meno peggio sotto un carrubbo ed essendo stanchi ci istalliamo lì sotto colla speranza di non essere scoperti da aerei. Sono quasi le undici. I bambini piangono, si distende lì sotto qualche coperta e giù tutti sdraiati per prendere un po’ di riposo. Passa così tutta la giornata.
Il padrone del terreno ci offre ospitalità nell’unico locale adibito a pollaio che ivi si trovava, ma che lui aveva abbandonato; sono mura cadenti che non ci danno garanzia, preferiamo starcene sotto il carrubbo. Ogni rumore d’aereo ci allarma ed allora giù tutti pancia a terra, sdraiati per non essere visti. Si sente da lontano il rombo incessante e cupo del cannone. Siamo quasi al tramonto, la pancia reclama e allora andiamo in cerca d’una pentola e dell’acqua che troviamo presso un vecchietto lì vicino. Si racimola un po’ di legna e si cucina alla meglio, poco sale, niente olio, qualche pomodoro ed un po’ di zucca raccolta lì vicino, poca pasta, questo il nostro pranzo, in immangiabile perché puzza anche di fumo, pur di meno lo abbiamo ingoiato lo stesso. Alla sera si esce di sotto l’albero per respirare un poco di aria all’aperto.
Le donne recitano il Santo Rosario ed io, solo uomo che mi trovo con loro, mi allontano di pochi passi per meditare in silenzio e pensare come poter risolvere la situazione. Non nascondo che gli occhi lacrimano e faccio finta di osservare la luna che tremula e sparisce e s’innalza beffandosi di noi. Cerco di nascondere quelle lacrime per non farle osservare ai miei perché anche loro ne soffrirebbero. E’ buio, si rastrella qualche fascio di ristoppia, si accomoda alla meglio un giaciglio, e giù tutti, come un branco di pecore che, stanche cercano riposo. Siamo preoccupati per la mancanza di Lullù, fratello di Stellina, del quale non ne sappiamo la sorte. Durante la notte nessuno può dormire. Colpi incessanti di artiglieria e rombo continuo di apparecchi ci annunciano che il campo di battaglia si avvicina verso di noi.

13 luglio martedì.
Spunta il giorno.
Tutti indolenziti usciamo di lì sotto, indecisi, senza alcuna idea concreta, molto preoccupati. Si pensa per l’approvvigionamento della giornata, abbiamo poco pane e niente acqua; qualche chilo di pasta: è l’intera risorsa di tutti noi 16 fuggiaschi. I duelli di artiglieria si fanno più intensi, l’ululato dei proiettili di grosso calibro lacera l’aria, si sente il colpo di partenza e poscia, dopo un breve istante ed un pauroso sibilo il tonfo delle granate che scoppia lontano. Sotto quel carrubo è imprudente starci. Gli aerei si susseguono ad ondate e noi sempre lì inchiodati con la pancia per terra, trattenendo il respiro per paura di essere mitragliati. Anche quella giornata passa per noi inutilmente sprecata. Verso sera un po’ di brodo fatto con un pollo acquistato a buonissimo mercato, è il nostro frugale pasto. Sono chiamato per la divisione, ma mi riesce difficile. Come si fa a dividerlo in sedici ?
Dopo le orazioni si va a letto o per meglio dire sul giaciglio. Fino alla mezzanotte ci è un continuo allarmante passaggio di aerei, ininterrottamente si sente il rombo grave dei loro motori, prima lontano, poi vicino e forte sopra di noi, poi di nuovo si allontana e così, incessantemente. Qualche raffica di mitraglia è il diversivo. Echeggia incessante il cannone. Come Dio vuole nelle prime ore del mattino si riesce un po’ a dormire, ma un sonno sospeso ed agitato, come di persone, che da un momento all’altro aspettano qualche brutta sorpresa.
14 luglio mercoledì.
Siamo all’alba, spunta appena il sole ed il duello delle artiglierie avversarie comincia. Il fuoco di qualche batteria piazzata in quei pressi produce un rumore assordante. Ci dicono che sono apparse navi da guerra nel mare di Porto Empedocle fino a punta bianca. È vero delle artiglierie della flotta battono la città. La tenuta Mosé, che osserviamo bene e incessantemente colpita è sempre un cratere in piena eruzione, le granate si vedono scoppiare ininterrottamente a brevissimo intervallo ed a breve distanza. Un ammasso di fuoco di fumo copre quel terreno coltivato ad ad oliveto. Qualche incendio divampa si dice che sia passata in quel luogo una batteria pesante. Si prevede pure un imminente corpo delle armi affidate.

Nel pomeriggio il silenzio assoluto. Qualche contadino che ci passa vicino, annuncia che il combattimento delle fanterie e verso il mare. Verso le 21:00 e a breve distanza l’uno dall’altro, due bagliori rossastri illuminata giorno le contrade con loro lampo sanguigno. Ne seguono due forti detonazioni. Forse due polveriere sono state fatte saltare in aria.
Le donne i bambini piangono e implorano di allontanarci al più presto possibile da quel luogo poco sicuro. Silenziosamente li accontento perché prevedo che il nemico avanza verso di noi. Cimoli amo quelle poche masserizie che avevamo con noi e via di corsa verso la vicina galleria della ferrovia che da Agrigento bassa va a Favara. Vi ho trovato ricoverate più di un migliaio di persone ma non ho potuto conoscere nessuno perché era buio pesto. Ci siamo alloggiati per terra fra le rotaie sulle pietre. La stanchezza ci fa fare un breve pisolino interrotto da qualche sussulto. Le ossa ci addolorano, ma in compenso la notte passa più tranquilla, lì sotto ci sentiamo un po’ più sicuri. Come dopo un’eternità, passa anche quella nottata.
bombe su agrigento15 luglio giovedì.
Appena dalle opposte apertura della galleria si intravedono i primi chiarori dell’alba, si esce di lì sotto o per prendere un po’ d’aria e soddisfare qualche bisogno. È impossibile descrivere il fetore di quel luogo. Puzza di sterco di sudiciume, siamo tutti sporchi come bestie. Ci si riconosce con qualcuno. Trovo la famiglia di Nenè Cipolla e quella di Andrea Seddio. Non abbiamo acqua né pane si va in cerca, di una sorgente qualsiasi, si trova a amare fangosa, ma siccome si ha sete di piccoli piangono, quell’acqua puzzolente fetida ci sembrava dolce come lo zucchero. Un pezzettino di pane mi viene offerto per la mia Mariuccia, che gli somministro ad un boccone per volta. Come si fa a trascorrere quella giornata? Quante altre ancora ne avevamo da soffrire?
Si esce di lì per qualche istante per respirare aria libera e poi nuovamente lì sotto rintanati. È impossibile vederci l’un con l’altro per individuare il proprio giaciglio. Eccomi andare a tentoni chiamare ad alta voce i nostri familiari per orientarci verso il nostro posto. Poca paglia racimolata in quei dintorni forma il nostro soffice letto. . Mi sembra di essere tanti sepolti vivi, condannati dal destino a crepare lì sotto privi di arie di luce. A volte temo sempre a trovarmi fra i carbonari quando nei più reconditi rifugi sotterranei si radunavano per le loro congiure. È uno spettacolo pietoso. Uomini con la barba lunga come eremiti, donne tremanti che stringono al loro seno i bambini spauriti e piangenti, vecchi sdraiati per terra immobili come pietrificati. Tutto al chiarore di qualche tremula luce di fiammifero acceso da l’impressione dello squallore delle miserie. Però tutti abbiamo in cuore un’unica fede, la speranza che Dio Onnipotente ci possa liberare da quella prigione incerta e paurosa, la speranza della salvezza.
Quale sarà la nostra fine? Non abbiamo più pane per qualche giorno qualche pugno di fave crude. Verso sera poche fave più calde che cotte, il nostro cibo. Vedo il languore di mia moglie, sulla sua desolazione, il suo scoraggiamento, la sua desolazione. La mancanza di nutrimento la sua cera verdastra mi fanno venire in mente tremende visioni, temo per la sua salute già abbastanza scossa. Non parlo poi della mia piccola creatura. Savia, ubbidiente, silenziosa fosse ignara di quel che succede, mi accarezza spesso col suo bacio innocente. Non posso resistere a tanta affettuosità; ne soffro maledettamente vorrei dare il mio stesso sangue, la mia stessa carne pur di nutrirla, ma non so come fare. Spesso me la stringo al cuore alle volte anche un po’ rudemente, e prego per lei e per tutti. Come piango di nascosto in questo momento!!!
Essa mi dice: papà, cos’hai? Perché piangi? No, mia piccola Mariuccia, ti sbagli sbadiglio, non è niente, e giù ancora lacrime. Ella mi stringe fortemente ed io continuo a lacrimare in silenzio. Mia moglie capisce quel mio martirio e ne soffre anche lei. Mi incontro lì sotto anche con mio cugino Giovanni Valenti con sua moglie e i suoi due piccoli figliuoli, uno dei quali, Minucio, gravemente ammalato. Gli infondo coraggio, ma temo per quel bambino che sembra l’ombra di se stesso. In tutto il tempo trascorso lì sotto, mio cugino e sua moglie hanno molto occhio di benevolenza per la mia creatura e gliene resto infinitamente riconoscente.
I soliti incessanti duelli di artiglieria e le voci insistenti di vicini combattimenti è il diversivo. Torna la sera e ritorna il cuore a diventare nero. Un po’ di pasta acida, mal cotta, senza condimento il nostro pranzo. È immangiabile, non si può inghiottire, meglio mangiarla cruda. Ne assaggio qualche cucchiaiata, ma sono costretto a buttarla. Ci si sdraia sul nostro giaciglio di fortuna e si cerca di sonnecchiare.
16 luglio venerdì.
Spunta l’alba, che inferno, scoppio di granate ovunque, di tutti i calibri, apparecchi che incessantemente ci sorvolano, tiri di sbarramento intensi, ci danno l’impressione di essere in piena tempesta, qualche coraggioso esce il naso dall’imboccatura della galleria ma è costretto a ritirarsi per lo scoppio vicino dei proiettili.
Non sappiamo quale sorte ci sia riservata, il nostro pensiero rivolto verso i figli lontano, verso i parenti tutti, ognuno pensa: chi lo sa come andrà a finire? Usciremo di qui vivi ? Le ore non passano mai, gli scoppi ci assordano, il combattimento è nei nostri pressi. Passa così il giorno in preda allo sgomento, all’incubo, alle preoccupazioni e dalle ansie. Un po’ di appetito, molta debolezza, le ossa rotte. Meloni racimolati da Lullù che, col suo coraggio incosciente, si allontanava, è stato il nostro pasto per quel giorno. Verso il tardo pomeriggio gli scoppi si diradano, circola la voce che qualche automezzo alleato attraversa lo stradale che passa sopra la galleria.
Poi ci comunicano che Agrigento ha accettato la resa. Siamo tutti increduli, ci sembra di sognare ad occhi aperti, siamo tutti diffidenti, pur nondimeno prendiamo coraggio lentamente nei diversi, i più curiosi, ci avviamo verso lo stradale. Si respira l’aria pregna di acre odore di polvere. La notizia ci viene confermata dal passaggio di autoblinde americane. Si piglia coraggio e si ringrazia Dio di averci liberato, anche se disastrosamente, è vero, oppressi da tante insopportabili sofferenze.
La sera passa un po’ più tranquilla e, all’imbrunire, tutti di nuovo sul proprio giaciglio come cani bastonati e, sinceramente, addolorati per la sorte toccata alla nostra terra. Come Dio vuole, un po’ più serena, passa una notte.
casema crispi ad agrigento in fiamme17 luglio sabato.
È l’alba. Usciamo tutti da quella caverna. Ora che il pericolo è passato siamo diventati tutti coraggiosi; però siamo lo spettro di noi stessi. Non si può descrivere lo stato pietoso in cui ci troviamo, siamo tanti fantasmi. La barba lunga ci invecchia tutti, siamo sporchi e sdruciti, ma nel complesso, apparentemente tranquilli. Si osservano di fronte a noi le strade che recano in città. Una via crucis di gente che ritorna al proprio casolare. Anch’io raggiungo tutta quella rete di persone e mi dirigo verso casa. Per fortuna la trovo intatta. Vi entro, tutto a posto. Meno male, respiro, tutto è salvo, posso di tornare a godere il focolare domestico, che è tutta la mia esistenza.
Ritorno in galleria per portare la notizia ai miei che ansiosi mi attendono. Passo in mezzo a tanta truppa americana, ma nessuno mi dice niente, mi coraggio di più, saluto e mi rispondono. Raggiungo i miei e le assicuro che nessun danno ci è capitato. Si decide ritorno a casa. Raccogliamo tutti gli indumenti che formavano il nostro giaciglio, invero ben poca cosa, e via lentamente verso l’abitato. È in salita, ci si stanca, iniettando una buona sosta e poi si ripiglia la marcia, bisogna badare anche per i bambini, che poveretti, stanchi e affamati, perché anche a piedi scalzi, ci seguono piagnucolando e tirando per le vesti le loro mamme.
Si arriva a casa, ci baciamo con tutti i conoscenti che incontriamo, congratulandoci per esserci ritrovati vivi. Sembriamo tanti ebeti, negli occhi di tutti i si legge il senso della stanchezza. Si pensa a rifocillarsi, un bel piatto di pastasciutta, ben condita, ci sembra una manna calata dal cielo. Mi viene a trovare mio cugino Michele Pardo. Dopo qualche momento usciamo per andare a casa sua. Appena arrivato, ci abbracciamo baciamo con tutti e piangiamo assieme. Non so, è un pianto di gioia, di emozioni o di tenerezza? Un po’ di tutto assieme, ci siamo ritrovati tutti salvi, dopo tanti pericoli e peripezie. Ritorno a casa, la sera si trascorre tranquilla, si aspetta tutto quello che nella fuga era rimasto disordinato e poi si va a letto tranquilli, che bellezza!
Sdraiati fra i nostri candidi lenzuoli, su quel nostro lettuccio che per tante sere c’è aspettato invano, protetti da quelle mura che sono state per i nostri confidenti, i testimoni silenziosi delle nostre gioie da nostri dolori, in quella casuccia che, per piccola che sia, sembra sempre una Badia. Si concilia il sonno profondo, la notte passa tranquillissima. Nessuna detonazione nessun rombo di motore ci disturba.
18 luglio domenica.
In mattinata facciamo un giro per la città. Che desolazione! Case distrutte, puzzo di cadaveri, macerie dappertutto, è impressionante, sembra come un formidabile terremoto si sia rabbiosamente e accanito contro la nostra città, non si sente la forza di descrivere tutta la desolazione, il cuore si schianta.
Spuntano le lacrime. Tutti gli amici che per caso si incontrano, si abbracciano e si baciano. Nel volto di tutti però si legge lo spavento le sofferenze delle poche ma interminabili giornate trascorse. Vi è gente che da diversi giorni non ha potuto mangiare o per lo spavento per mancanza di viveri, o per evitare di uscire dal ricovero, sembrano fantasmi. Facciamo tutti pietà, ma ci rassegniamo al destino sperando in un migliore avvenire.
bombardamento al viale della vittoria ad agrigentoAppendice
mi sono sforzato descrivere nel miglior modo possibile tutte le peripezie le sofferenze patite in questi otto giorni di vita randagia, perché i miei figli, è in atto militari, e cioè Gino, Lillo e Pippo, quando avranno la gioia di ritornare a godere tutti l’affetto della famiglia, l’abbraccio il bacio sincero dei genitori, e la piccola Mariuccia, quando sarà in grado di capire, possono avere la concezione di questo breve periodo di atmosfera di guerra che ha infestato il suolo pastoso della nostra bella millenaria Agrigento.
Il mio pensiero è costantemente a loro rivolto, che disperavo potere anche in un tempo lontano riabbracciare, perché non credevo poter superare tutti i disagi patiti in questo periodo di emergenza. Ringrazio Dio per avermi dato la forza di sopportare tali disagi e la fortuna di restare in vita, sia io che mia moglie e la bambina, perché, quando tutto sarà ritornato al ritmo normale, ed i miei figli saranno tutti e tre ritornati, possiamo recarci in pellegrinaggio verso quei luoghi che mi hanno ospitato in sì terribile contingenza. La mia riconoscenza va da tutti coloro che hanno avuto per me una parola di conforto. A mia moglie che, quantunque sofferente, mi rispondeva sempre coraggio, e che in silenzio rassegnata, pregava sempre l’Onnipotente perché si degnasse aiutarci; alla mia Mariuccia, che col suo bacio innocente rasserenava il mio spirito. A tutti i miei figli la santa benedizione, che Dio li aiuti sempre, Sant’Antonio li protegga nei loro passi e nel loro avvenire, liberandoli sempre da qualunque pericolo e rendendoli felici nelle loro aspirazioni. Dio grande giusto aiuta i buoni, aiuterà anche loro, essi sono buoni.
bombardamento al viale della vittoria ad agrigento
2-5-1945 resa delle truppe tedesche
7-5-1945 resa della Germania.
per gentile concessione di Mario Pardo
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bombardamento al viale della vittoria ad agrigento