Sono talmente pregnanti e potenti l’afflato e l’effluvio che la grecità siceliota di Akragas emanano allorquando, anche frettolosamente, attraversiamo il suo antico territorio scandito da immanenti presenze monumentali che nessuno può rimanerne esente. Questo territorio d’incomparabile bellezza dove natura, paesaggio ed eccelsa impronta dell’uomo si uniscono e si
arricchiscono con mirabile equilibrio, ancorchè parzialmente lacerato da profonde ferite e spesso
turbato da una chiassosa e frettolosa viabilità, non cessa e non cesserà di colpire neanche il più
disattento tra i viaggiatori, turisti o semplici passanti.
Figuriamoci se non colpisse la fervida mente ed il sensibile ingegno di Luigi Pirandello
attraverso la sua originale lettura ed il suo profondo ascolto di quei “sublimi avanzi”. Il Nostro
visse, inoltre, in un periodo di fervidi studi e interessanti scoperte. Nel periodo compreso tra l’Unità
d’Italia e gli anni della seconda guerra mondiale eruditi locali e studiosi italiani e stranieri si
appassionarono alle antichità akragantine animando spesso un vivace dibattito e producendo una
ricca serie di monografie e saggi. Tra questi ricordiamo Giuseppe Picone che, seppur archeologo e

storico di adozione, diede un contributo non indifferente alla conoscenza di Agrigento classica tanto da essere accolto nelle più importanti accademie nazionali ed internazionali. A lui si deve, peraltro, l’accorata battaglia per l’istituzione del Museo ad Agrigento che riuscì a creare e diventarne primo
direttore nel 1864 evitando che le antichità agrigentine emigrassero verso Palermo. Insieme ad altri illustri personaggi dell’epoca come Gabriele Dara, Giuseppe Cognata e Bartolomeo Lagumina fece parte della Commissione istituita dal Regio Ministero per la conservazione ed il restauro degli antichi monumenti di Agrigento.
Negli anni tra le due guerre mondiali emerge la figura di colui che possiamo definire il più attento ricercatore e divulgatore delle antichità akragantine: Pirro Marconi. Egli, sotto la guida di Paolo Orsi, allora unico Soprintendente alle Antichità della Sicilia *, effettuò numerosi scavi e ricerche che rinnovò nella carica di ispettore alle antichità con la responsabilità della direzione del
Museo di Palermo e del coordinamento delle ricerche nelle tre provincie occidentali della Sicilia (Palermo, Trapani ed Agrigento). La sua attività s’intrecciò ad Agrigento con quella del mecenate
inglese Hardcastle, altro grande personaggio cui il nostro territorio è debitore .
Un ruolo particolarmente sensibile nella conoscenza archeologica di Luigi Pirandello lo ebbe Salvatore Bonfiglio per le sue idee spesso in contrasto con quelle di archeologi “professionisti” come Schubring.

Tra gli ultimi animatori del vivace dibattito culturale agrigentino, insieme a Francesco Sinatra, Pirro Marconi e Alexander Hardacstle, troviamo Giovanni Zirretta al quale si deve la sistemazione del Museo Civico, del quale fu direttore, con i fondi messi a disposizione dal mecenate inglese. Si battè anche per la nazionalizzazione del Museo e l’istituzione della Soprintendenza di Agrigento.
Una figura determinante in questo clima di vivace interesse per le antichità akragantine fu il ricordato mecenate inglese Hardcastle. Giunto ad Agrigento nel 1921 dopo aver servito la sua Patria nell’esercito coloniale, se ne innamorò a tal punto da eleggerla sua residenza acquistando Villa Aurea. Il ricordato incontro con Pirro Marconi fu determinante poiché il connubbio tra la passione
ed il mecenatismo di Hardcastle e la passione professionale di Marconi ebbero l’effetto di produrre una tale massa di scavi e ricerche tali da rivoluzionare ampliandola a dismisura la conoscenza dell’antica città. Si scavarono porzioni della cinta muraria, il tempio di Demetra, il santuario delle divinità ctonie, i templi di Vulcano, di Esculapio, dei * Dioscuri e l’Olympeion .
Pirandello ebbe una stretta familiarità con il mondo greco dimostrata fin dalle opere giovanili, che fu rinvigorita in talune opere della maturità che hanno spesso lo sfondo attentamente costituto da ambienti grecizzati del paesaggio agrigentino come alcune delle “Novelle per un anno” e nei romanzi “Il turno” ed “I vecchi e i giovani”. Il paesaggio grecizzato agrigentino non è soltanto uno sfondo generico, bensì una descrizione ed una comprensione effettiva di luoghi e monumenti che dimostra una profonda conoscenza non soltanto formale e topografica ma anche quasi “scientifica” e soprattutto dettata dall’amore malcelato per la sua terra che traspare nel passo de “Il capretto nero” (Novelle per un anno) quando scrive: “…dalla città alta sul colle alle rovine dei Templi akragantini, aerei e maestosi su l’aspro ciglione che arresta il declivio della collina accanto, la collina akrea, su cui sorse un tempo, fastosa di marmi, l’antica città da Pindaro esaltata come bellissima tra le città mortali”.
Le sue descrizioni dei luoghi sono precise oltre che efficacemente interpretative della
morfologia e del carattere dei luoghi. Ricordiamo a tal proposito la sua sintetica quanto efficace
descrizione di un sito che propri negli anni prossimi alla Sua dipartita era oggetto di scavi e ricerche

dell’allora trentenne Paolo Enrico Arias: Serraferlicchio, stazione eponima di una facies
dell’eneolitico siciliano da cui provengono pregevoli ceramiche dipinte di evidente ascendenza
egeo-anatolica. Pirandello descrive la Serra Ferlucchia proprio come oggi noi la rivediamo pur se aggredita dall’espansione urbana settentrionale di Agrigento. Egli ne fa lo sfondo tragico al vagare del personaggio in preda all’epilessia che ben si colloca come in uno scenario teatrale “Giù, dirimpetto, la Serra Ferlucchia, (che) gessosa, mostrava le bocche cavernose delle zolfare e i lividi tufi arsicci dei calcheroni spenti”
Del resto * la sua biblioteca era ben dotata delle principali pubblicazioni dell’epoca
riguardanti la storia e l’archeologia della sua amata città, ma anche di opere di carattere generale e manualistico. Egli, infatti, partecipa del vivace dibattito che contrapponeva insigni e meno insigni personaggi del variegato mondo dell’archeologia di allora oscillante tra la professionalità dei pochi e l’approccio libero e spesso fantasioso dei più.
L’attualità del dibattito su “Pirandello e l’archeologia” è dimostrata dal continuo ritorno
sull’argomento. Com’è noto a tale argomento fu dedicata una mostra ed un volume edito
dall’Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione nel 2001 a
dimostrazione dell’interesse sul rapporto stretto, ancorché contraddittorio, tra il grande
drammaturgo e le immense emozioni che la grecità di Akragas destava in uno spirito sensibile e
creativo.
Chissà se fu per spirito patriottico e campanilistico o per reale convinzione (propenderei più per la seconda ipotesi) che Pirandello dimostrò apertamente la sua avversione per quanto gli studiosi tedeschi andavano proponendo e ricostruendo dell’antica topografia akragantina. Li chiama “dottoroni tedeschi”, per bocca di don Ippolito Laurentano nei “I vecchi e i giovani”, contestando l’identificazione dell’acropoli al di sotto dell’odierna città e sposando, al contrario, l’ipotesi dell’agrigentino Salvatore Bonfiglio il quale, insieme al Duca di Serradifalco ed al Politi, rileggendo Polibio, la collocava nell’area della Rupe Atenea.
Ritorna sull’argomento per bocca del medesimo protagonista facendogli affermare senza
mezzi termini: “…non posso sopportare questi Tèutoni, – disse il principe, rientrando con don
Illuminato Lagaipa nel Museo – questi Tèutoni che, non potendo più con le armi, invadono coi libri
e vengono a dire spropositi in casa nostra, dove già tanti se ne fanno e se ne dicono…”
E’ proprio in don Ippolito Laurentano che scorgiamo quell’identificazione autobiografica
che ci fa comprendere meglio quale fosse l’approccio del Nostro nei confronti della storia antica e dell’archeologia in generale e di quella akragantina in particolare. Oltre ad un’identificazione autobiografica don Ippolito rappresenta lo stereotipo e la summa di quei tanti studiosi ed appassionati agrigentini verso il proprio passato (dal barone Genuardi al barone Giudice, da Giuseppe Picone a Michele Caruso Lanza). Don Ippolito nel più peculiare spirito pirandelliano diventa l’uno che rappresenta i “centomila” che di storia agrigentina a vario titolo si erano interessati ed avevano scritto.
Analogamente, sempre nella medesima opera “I vecchi e i giovani” asseconda con dovizia di considerazioni l’identificazione del Raccuglia dell’emporio akragantino, in contrapposizione con Schubring, con la zona di Punta Bianca e non con la foce dell’Hypsas che, invece, noi oggi sappiamo essere tale.
La sua avversione verso quella che dopo qualche decennio si configurerà “archeologia
ufficiale”, divenendo sempre più impermeabile e contrapposta a quella “non ufficiale” costituita da eruditi locali ed appassionati che si esercitavano nell’approfondimento storico, archeologico, topografico per passione e passatempo piuttosto che per mestiere, è dimostrata anche dall’apparente assenza nei suoi carteggi ed in quello che conosciamo della sua biografia di contatti con gli
“archeologi ufficiali” dell’epoca. E’ veramente strano che Pirandello pare non aver avuto alcun
contatto con studiosi e responsabili istituzionali dell’allora settore delle Antichità e Belle Arti del
calibro di Pirro Marconi, Paolo Orsi, Antonino Salinas o dell’allora giovane e brillante Biagio Pace.
Sarebbe interessante approfondire tale aspetto per intuirne le motivazioni.
E’ probabile, ma l’avanzo soltanto come ipotesi tutta da verificare, che il Nostro, vivendo e sentendo i fasti dell’antica
Akragas in maniera del tutto poetica e letteraria mostrasse un certo fastidio verso un approccio “scientifico” necessariamente arido, distaccato e caratterizzato dalla freddezza dell’indagine filologica e metrica verso quei “resti miserevoli”. E’ probabile che quell’approccio scientifico basato su accurati rilievi e misurazioni e su indagini quasi anatomiche delle vestigia della sua città.
hardcastle: considerasse quasi una profanazione al pari di una gelida autopsia su un corpo caro ed amato.Si chiede, a ragione, Lo Iacono nella sua prefazione al ricordato volume su “Pirandello e l’archeologia” come mai un personaggio rilevantissimo
nella lunga e densa storia degli studi akragantini, quale Alexander Hardcastle, non abbia avuto alcun posto nella frequentazione pirandelliana della sua città.
Erano gli anni in cui le conoscenze sulla topografia di Akragas si incrementarono grazie alle esemplari ricerche di Cavallari e Schubring cui facevano da speculare contraltare gli
approfondimenti degli agrigentini Giuseppe Picone, per gli aspetti storici, e Salvatore Bonfiglio per quelli topografici. Tra loro Pirandello sceglie le deduzioni dei suoi concittadini e rifiuta le accurate indagini dello Schubring che nella sua monumentale opera “Topografia di Agrigento”, pubblicata a Lipsia nel 1870, ci offre, invece, con l’ausilio di una carta topografica accuratissima elaborata dallo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, un quadro esaustivo di quanto fino allora si conoscesse di ruderale e monumentale dell’antica Akragas con l’aggiunta della ricostruzione dell’intero perimetro delle mura urbiche e dell’ipotetica collocazione nell’area dell’odierna Girgenti dell’acropoli greca. Si aiutò molto basando le sue deduzioni topografiche su un’attenta lettura delle fonti che lo portò anche a cimentarsi in altre ipotesi come il posizionamento dell’agorà nella Valle Sala ad occidente di San Nicola (che risulterà sostanzialmente esatta), l’identificazione del luogo del tempio di Zeus Atabirios con quello della Cattedrale e dei ruderi al di sotto di S.Maria dei Greci con il tempio di Atena.
Di poco successiva è l’opera del Cavallari (Sulla topografia di talune città greche di Sicilia
e dei loro monumenti, 1879) che sostanzialmente avalla le ipotesi di Schubring sulla localizzazione
dell’acropoli pur se con talune modifiche del tracciato murario. Ne divergeva per la localizzazione
dell’agorà che poneva tra la fontana di Bonamorone e l’acropoli.
Ai due studiosi si contrappose Bonfiglio che collocava l’acropoli nel luogo della Rupe
Atenea mentre al di sotto dell’attuale Girgenti poneva addirittura la leggendaria città di Camico.
rupe atenea sede del mitico re Kokalos legato alla saga minoica della permanenza in Sicilia di Minosse.E’ in questo ambiente culturale, animato da figure contraddittorie e complesse oscillanti tra l’essere e l’apparire esaltate dalla vena poetica pirandelliana, che emerge la descrizione e l’interpretazione che il Poeta da dei “sublimi avanzi” della sua terra . Apparire ed essere di quei ruderi sono mirabilmente controbilanciati tra l’affascinante e prorompente forza dei ruderi e la
realistica visone di essi come “superstiti, smarriti” testimoni di “divina solitudine, da tempo, delubri arcani del Silenzio eletti.” Ed ancora ne “ I vecchi e i giovani” amplia la sua dimensione dialettica tra miseria del presente e nobiltà del passato offrendoci un mirabile affresco akragantino ancora
purtroppo attuale dove “Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su le quali Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo…”
pirandello al giunoneIn questa dualità tipicamente pirandelliana rivive anche il rapporto contraddittorio con la sua
terra caratterizzato dal forte legame affettivo, rinvigorito proprio dal fascino della Grecità magno greca e siceliota, ma anche dal rifiuto * di una Sicilia attuale misera, violenta che non amava i
propri figli condannandoli o all’emigrazione o all’emarginazione del duro lavoro dei campi e della
più tragica oppressione delle miniere. Un rapporto amore/odio mitigato certamente dall’evocazione
dei fasti del passato rivissuti nella sua ben nota affermazione “Porto la Grecia dentro di me. Il suo spirito mi conforta, mi illumina l’animo. Posso, infatti, dire che, senza esserci mai stato, la conosco.
Sono nato in Sicilia, nella Magna Grecia, di greco in Sicilia vi è molto. Vi si trovano ancora vivissimi la misura, il ritmo, l’armonia…” (Intervista a Luigi Pirandello concessa allo scrittore greco Kostas Uranis nell’autunno 1931), quasi a giustificare la trasandatezza del presente.
La scansione del tempo è l’unità di misura entro cui relativizza il suo rapporto con l’antico.
Il tempo che distrugge e copre con la polvere del tempo gli antichi splendori di Akragas. Il tempo
che relativizza tutto, anche una delle città più splendide del mondo di allora.
Don Ippolito Laurentano, nel quale, come vedremo, s’incarna quello scetticismo venato da quella lugubre immanenza della morte che pervade spesso la sensibilità di noi Siciliani, “guardò i Tempii che si raccoglievano austeri e solenni nell’ombra, e sentì una pena indefinita per quei superstiti d’un altro mondo e d’un’altra vita. Tra tanti insigni monumenti della città scomparsa solo ad essi era toccato in sorte di veder quegli anni lontani: vivi ora essi soli in mezzo a tanta vita d’alberi palpitanti, nel silenzio, di foglie e d’ali.”
Una visione estremamente pessimistica e penalizzante della sua terra emana dalla succitata opera, che francamente non ci sentiamo di condividere con ogni doveroso rispetto e devozione verso il Maestro. Egli, infatti, afferma che della “città fastosa, ricca di marmi, splendida e molle d’ozii sapienti…” rimaneva un’eco soltanto nei nomi fastosi ed aulici: “…Via Atenea, Rupe Atenea,
Empedocle… – nomi: luce di nomi, che rendeva più triste la miseria e la bruttezza delle cose e dei luoghi: l’Akragas dei Greci, l’Agrigentum dei Romani, erano finiti nella Kerkent dei Musulmani…”
Tale visione pessimistica e contraddittoria che nei “I vecchi e i giovani” si manifesta, rende evidente il contrasto tra i fasti dell’antica Akragante e la decadenza della moderna Girgenti priva di tensione civile e culturale. Erano i tempi * (tra il ’93 e il ’94) della profonda crisi estrattiva dello zolfo e della rivolta dei Fasci repressa con violenza da Crispi.
Alla crisi economica, politica e culturale, si sommava la delusione per il crollo degli ideali risorgimentali che avevano animato tanti
Siciliani. Con la parabola di * Crispi che da eroe garibaldino diventava paladino degli interessi nordisti della monarchia sabauda crollava uno dei tanti miti e delle molteplici speranze che faceva piombare la Sicilia ed i Siciliani in quell’atmosfera di disillusione ed apatia dalla quale ancora, purtroppo, non riusciamo a scrollarci. E’ evidente, pertanto, che la sua disillusione politica verso il presente coinvolge e quasi somatizza il suo rapporto con i luoghi della sua origine avvolgendo anch’essi in una dimensione negativa che lo portava a rifiutare quella visione romantica della Valle che noi siamo abituati a pensare ed immaginare con grande suggestione e fascino.
Ancora oggi la Valle dei Templi, nonostante le ben note alterazioni subite, ci affascina e ci coinvolge con la sua eccezionale bellezza, dove natura e cultura si uniscono in un mirabile ed unico connubio.
Figuriamoci cosa doveva essere allora, agli inizi del secolo scorso, quel luogo incantato dove l’assenza di ogni stridente “modernità” veniva amplificata dall’alacre lavoro dell’uomo che aveva avvolto i ruderi monumentali dell’antica città in una sorta di “paradiso agronomico” dove mandorli, peschi, ulivi e pistacchi contribuivano non poco ad esaltare la grecità con lo sfondo suggestivo ed
evocativo di quella tavolozza cangiante di colori che soltanto il mare agrigentino sa offrirci mutando dal blu intenso al verde, al grigio ed al marrone a seconda delle condizioni meteo marine.
Eppure l’avversione sentimentale verso i “suoi” luoghi si spinge ad esaltare le contrade limitrofe a scapito della sua Girgenti. Nelle “Novelle per un anno – Lontano” addirittura fa dire al personaggio: “Tornato a Porto Empedocle, aveva trovato il paese cresciuto quasi per prodigio, a spese della vecchia Girgenti che, sdrajata su l’alto colle a circa quattro miglia dal mare, si rassegnava a morir di lenta morte, per la quarta o quinta volta, guardando da una parte le rovine dell’antica Akragante, dall’altra il porto del nascente paese.”
Eppure Girgenti, seppur attraversata da un’innegabile crisi economica, manifestava proprio in quegli anni una certa vivacità culturale testimoniata dall’insorgere di passione ed interesse verso il proprio passato concretizzati con la pubblicazione di numerose riviste dove i cultori di Storia Patria si esercitavano nell’approfondire i temi dell’antica storia akragantina e, soprattutto, (elemento meritevole da sottolineare) già allora si battevano per la salvaguardia di quei ruderi che testimoniavano del glorioso passato. Il dibattito, cui Pirandello partecipò seppur marginalmente, era animato da figure benemerite che, abbeverandosi di classicità, contribuirono a focalizzare l’attenzione su Akragas greca. Tali furono tra gli altri Lagumina, Bonfiglio, Dara e Picone.
Un fervido e contraddittorio rapporto fu quello tra Pirandello e l’archeologia in generale, ed akragantina in particolare, basato sul privilegio della visione pessimistica e decadente del presente contrapposta a quella mitica e aulica del passato.
Un passato talmente esaltante e vivo all’animo del Nostro che divenne concretamentela sede dell’ultimo viaggio del Nostro verso l’al di là. Fu, infatti, nel ben noto cratere a colonnette attico a figure rosse proveniente dalla città ed acquisito dal padre Stefano, databile al 470-460 a.C. è decorato da una rappresentazione interpretata come l’inseguimento di Procne e Filomena da parte di Tereo, che i resti mortali di Pirandello trovarono requie simboleggiando il legame concreto sia con la famiglia che con la storicità della sua terra.
Tanto resta di quel mondo e di quelle atmosfere. Con affascinato ottimismo guardiamo alla Valle dei Templi ed alle rovine akragantine finalmente salve ed avvolte con gelosa cura nel grande parco che le accoglie. Certo tanto ancora c’è da fare affinché il pessimismo di Pirandello sia soltanto eccellente armonia poetica del passato e non riaffiori nel presente di fronte ai rischi incombenti di degrado e falsa modernità che – sono certo – gli Agrigentini onesti e gelosi custodi della loro memoria (e sono la maggioranza) sapranno contrastare così come hanno saputo fare nei periodi più bui della cementificazione regalando all’Umanità uno dei suoi tesori più inestimabili.
Sebastiano Tusa