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ipogeo giacatello

Agrigento gli Ipogei

19 Ottobre 2014 //  by Elio Di Bella

Il sottosuolo agrigentino è caratterizzato da una caratteristica rete di sotterranei con funzione di approvvigionamento idrico. Probabilmente si cominciò a realizzarli già nel periodo greco-romano e servivano per alimentare d’acqua la popolazione.
Gli ipogei agrigentini sono in gran parte scavati nella roccia, a venti e anche a trenta metri di profondità dal suolo. La roccia è intaccata spesso con ordine e simmetria. I cunicoli hanno forma parallelopipedale e sono alti in media metri 1,90 e larghi fino a 90 centimetri, prevalentemente scavati nella roccia, ma a brevi tratti anche a cielo aperto. Le prime notizie sugli ipogei agrigentini si trovano nell’opera storica di Diodoro Siculo che pensò si trattasse di condutture di acque luride, ma non approfondì la questione.
Sappiamo che nel 1776 Houel durante il suo soggiornò a Girgenti esplorò quei suggestivi cunicoli e che altri viaggiatori nel secolo scorso hanno almeno sentito parlare di queste costruzioni. Nel 1827 il poeta Leonardo Vigo da Acireale e il medico agrigentino Giuseppe Serroy condussero insieme una spedizione nei sotterranei e successivamente anche lo studioso Nicolò Palmeri raccolse notizie per scrivere una accurata descrizione dei siti più importanti.
Naturalmente gli ipogei hanno suscitato anche l’interesse di Giuseppe Picone, che però, con molta fantasia, fa risalire la loro fondazione all’epoca dei Ciclopi e ai tempi mitici di Dedalo.
Nel nostro secolo, tra i primi a occuparsi a lungo e con competenza degli ipogei agrigentini troviamo innanzitutto il senatore Giuseppe Cognata, che, in qualità di presidente della commissione provinciale per la conservazione dei monumenti, nel 1910 presentò una relazione con cui si concludeva che i sotterranei erano stati commissionati dal tiranno agrigentino Terone e che l’autore del progetto era Feace. Vi lavorarono per molti anni centinaia di prigionieri cartaginesi, resi schiavi dagli Agrigentini dopo la vittoria di Imera.
Secondo i più recenti studi (in particolare, cfr. Miccichè Lillo, Gli ipogei Agrigentini tra archeologia, storia e mitologia, Agrigento, 1996) gli ipogei di Agrigento hanno un percorso di circa 17 chilometri e possono suddividersi in quattro tronconi.
Il più noto e il più vasto degli ipogei agrigentini è quello del Purgatorio, vi si accede per una porta di ferro ai cui lati sono due colonnine sormontate da un leone dormiente. Questo ipogeo soprattutto ha una struttura labirintica e le sue stanze sono di misura varia. Oltre che per usi irrigui e potabili, questo ipogeo è stato utilizzato nei vari secoli per scopi difensivi e militari e come cava di pietra.
Su questo anomalo ipogeo abbiamo questa bella testimonianza di Lionardo Vigo: “Lì 17 settembre 1827, insieme al dottore in medicina signor Giuseppe Serroy, tentai scendere nel Labirinto da una apertura che vedesi nella casa del sig. Pasquale Sclafani, ma era talmente da muriccio ostruito, che ne fu impossibile penetrarvi. L’inutile tentativo raddoppiò il desiderio, e dalla casa del sig. Modica ficcandoci con fiaccole, fanali e corde per una grotta di fianco, e poi per una buca del diametro di mezzo metro, scendemmo con una scala di dieci gradini.
Eravamo pallidi e credevamo gran danno rischiare per curiosità la vita nei penetrali del monte: ma lì giunti, animosi ci incamminammo l’un dopo l’altro. Ci voltolammo nel fango per un pertugio a precipizio lungo metri 10 circa e largo meno di mezzo metro. Il fumo delle torce a vento soffocava, e zuppi, affumicati e brutti di limo, ci rialzammo alla prima stanza, e mi reputai felice nel poter camminare carpone. Nulla si poté ivi osservare. Passai ritto in una stanza seconda, e quel silenzio rotto dalle nostre voci echeggianti, dall’acqua che lenta gocciolava, il buio dileguato dall’insolita luce ed il sentirci una città intera di sopra, accrescevano il diletto bizarro di quella scena.
Ogni stanza, per lo più quadrilunga, comunica irregolarmente con altre tre o quattro, e queste con altre, talché ognuna è centro a molte che la circondano. Ciascuna più o meno è alta da due in tre metri, larga da quattro sino a sei. L’antico suolo, ingombro dai caduti massi e dalla creta, è ineguale. Scende come la montagna ed è coperto da stalagmiti, il tetto orizzontale lo è di stalattiti.
Vedesi ancora nel tufo calcare il taglio dello scalpello che l’incavò. Le mura intermedie sono grosse da uno a sei metri. Le comunicazioni non si guardano, non havvi vestigio di porte. Ad ora ad ora, incontransi nel tetto delle aperture otturate dalla terra caduta e che ha preso la forma di un cono. Così fidando nel mio filo di Arianna, d’una in altra cavità passando, vidi grandi massi avvallati e altri che minacciavano precipizio.
A quindici metri sottoterra, fui chiuso dal monte e da uno stagno di acqua dolce e limpida. Chiunque sarebbe retrocesso: noi avanzammo.
Non posso tacervi ch’io avea sotto gli occhi, Dante, che iva nella città dolente, e quelle bolgie, più presto che camere, e quelle rupi stesse cadute e cadenti mi richiamavano alla memoria i divini carmi del ghibellino, che il dottore Serroy declamava, scuotendo la fiaccola e stendendo la corda.
Io consigliavo il ritorno, temendo che si turasse l’uscita: erano sordi tutti e predicavo al deserto, onde mi fu forza progredire, non sapeva più in quale direzione si camminasse. Non da dove eravamo venuti, né dove si andasse. Le camere si ripetevano e gli incomodi non minoravano.
A cinquanta metri vidi questa leggenda nel tufo: Y. Houel 9-7-1776.
Quello scritto mi rianimò e volli percorrere oltre la meta in cui Houel si era arrestato.
Penetrai quasi altrettanto; ma il pericolo di restare schiacciati e la monotonia ci fecero retrocedere. La sortita fu più disagevole della discesa: solo con l’aiuto delle dita delle mani e delle punte dei piedi, aggrappate e puntellate nel fango dal pertugio tondo, grondanti di sudore, ne rimettemmo, come Dio volle, sotto la scala, e quindi uscimmo a riveder le stelle”.

DI ELIO DI BELLA

Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento storia

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