Ancora oggi gli Agrigentini lo chiamano “Lu Casteddu Vecchiu“. Si tratta di un fortino che sorge sulle alture della città, dove incontriamo l’uno accanto all’altro il Duomo, il Palazzo Vescovile, la Chiesa di Sant’Alfonso. Verso oriente si possono ancora notare i resti del castello arabo edificato nel secolo X, in piena dominazione musulmana ad Agrigento. Oggi (quel poco che resta) viene utilizzato per usi idrici.
Gli Arabi lo costruirono come presidio e per vigilare dall’alto sulla città che loro avevano voluto stabilire sulla collina per meglio difenderla da eventuali attacchi dal mare. Finalmente, il 25 luglio 1088, i Normanni, guidati dal conte cristiano Ruggero, dopo un lungo assedio riconquistarono la città di Agrigento e decisero tra l’altro di restaurare il Castello, che era stato danneggiato proprio durante il lungo conflitto con i saraceni di Hamud, allora emiro della città.
Dopo i Normanni molte altre truppe usarono il Castello agrigentino come presidio finché non venne utilizzato dagli spagnoli e in particolare dai Borboni come carcere. Viene ricordato in particolare un cruento episodio avvenuto nel Settecento, durante l’occupazione savoiarda (1713-1734). L’ufficiale Pompeo Grugno comandava allora la guarnigione di stanza a Girgenti. Ma lui e il suo manipolo non era ben visti dalla popolazione locale per qualche sopruso di troppo.
Scoppiò pertanto una rivolta che le cronache ci dicono guidata da un contadino, un certo Zosimo. Soldati e ufficiali vennero catturati e si decise di ucciderli. Intervenne allora il capitano di Giustizia di Girgenti che fece applicare la legge e decise di rinchiudere i soldati nel vecchio Castello. I savoiardi riuscirono però a far conoscere la propria sorte e le truppe erano già partite da qualche parte della Sicilia per assediare la città, punire i rivoltosi e liberare i soldati. Ma Zosimo venuto a conoscenza di questi nuovi eventi, con l’aiuto di altri popolani fece strage dei prigionieri. Riportato l’ordine in città, il capitano Montaperto arrestò Zosimo e lo rinchiuse nel fortino.
Nel Carcere si rinserrarono anche le truppe borboniche nel 1848 dopo che anche ad Agrigento erano scoppiati i moti rivoluzionari. Ma i patrioti Agrigentini circondarono il forte, lo minarono e costrinsero la guarnigione a firmare la resa. Sino al 1864 vi vennero reclusi centinaia di condannati, ma nel periodo di Natale di quell’anno alcune decine di prigionieri riuscirono a fuggire. Si trattava di una delle tante fughe avvenute soprattutto nella prima metà dell’Ottocento, così il Prefetto Falconcini dispose di chiudere il reclusorio e di trasferire altrove i detenuti.
Successivamente il Carcere vecchio – come intanto cominciarono a chiamarlo gli Agrigentini – venne trasformato in serbatoio per raccogliere le acque di Rakalmari e del Voltano ed ancora oggi è adoperato per tale uso.
E’ ancora visibile, per un discreto tratto, un muro perimetrale.
Il carcere del castello consisteva in poche piccole stanze, in alcuni cameroni ed in una grande corte. Situato in una località abbastanza arieggiata, avendo stanze piuttosto ampie e piene di luce, da alcuni era persino ritenuto uno dei “più comodi” del tempo (sic!).
Intanto nel 1866 il Parlamento italiano aveva deciso la soppressione degli ordini religiosi e resosi disponibile in città il Convento di San Vito, il Prefetto decise di trasferirvi l’antico reclusorio.
Anche questo ampio edificio si trovava su uno dei punti più alti della città, a sud-est, sopra la villa Garibaldi, distrutta dalla selvaggia cementificazione del dopoguerra.
Il Convento di San Vito era stato edificato a spese del Senato di Agrigento dal beato Matteo Cimarra, girgentano, nell’anno 1432. Già nel 1430 il beato, a spese del sovrano Alfonso di Aragona, aveva costruito il Convento di San Nicola, fuori le mura, nella valle dei Templi. Nel 1442 il beato Cimarra divenne vescovo di Agrigento.
La memoria della fondazione del Convento di San Vito viene tramandata dalla seguente iscrizione, trovata nell’anno 1741:
Fundatio huius venerabilis conventus / S. Viti martyris, Agrigenti cives, propter / maximam devotionem, quam erga beatum / patrem Matheum ab Agrigento habebant, / tunc in coenobio divi Nicolai, / commemorantem cum nimis ab eorum urbe / distaret, nec possent maximo absque / incomodo saepius cum ispo esse, / nec illius devotam / conversationem habere, hanc domum sub / titolo S. Viti non longius quinquaginta / passibus a moenibus ex communibus quoque / boni aedificare curavit Agrigentinus / Senatus, Anno Domini 1432, quam etiam / maxime frequaentant, ac decem et octo / eius habitatores continuis beneficis et / elemosynis prosequitur. / (Traduz.: Fondazione di questo convento del venerabile S. Vito martire, i cittadini di Agrigento, per la grandissima devozione che per il beato padre Matteo hanno ad Agrigento, (che viveva) allora nel cenobio di S. Nicola, distante troppo dalla loro città e non potendo per la grandissima scomodità trovarsi con lo stesso gruppo piuttosto frequentemente e non potendo avere una devota conversazione con quell’ordine monastico, il Senato agrigentino decise di costruire traendo i fondi dall’erario questa chiesa sotto il titolo di S. Vito, non lontano più di 50 passi dalle mura).
Questo carcere, circondato da alte mura, conserva ancora le caratteristiche della sua remota origine. Nel secolo scorso constava di un primo piano; era caratterizzato da lunghi corridoi, lungo i quali si distribuivano a destra e a sinistra celle di pochi metri quadrati, che erano le antiche abitazioni dei frati. Le stanze, in cui stavano anche tre detenuti, erano appena sufficientemente arieggiate ed illuminate grazie all’aria e alla luce che entravano in quelle celle da un piccolo foro.
Entrate e corridoi erano sbarrati da grandi e massicce porte in ferro a graticola, attentamente sorvegliate naturalmente dal personale. La fama di questo carcere nel secolo scorso era terribile. Si racconta che i direttori delle carceri italiane, quando volevano minacciare i detenuti più irrequieti, pronunciavano pressappoco queste parole: “Caro voi state a posto, altrimenti vi faccio trasferire al San Vito, a Girgenti, dove le atrocità di quel reclusorio in breve termine vi faranno cessare di vivere”.
DI ELIO DI BELLA