
di Vincenzo Tusa
“Non è distrutta di Creso ancor la bontà, la virtude; ma Falari, cuore feroce, che ardeva le genti nel tauro di bronzo, lo avvolge la fama odiosa: né tra le mense le cétere nelle canzoni dei giovani l’accolgono. Il primo dei beni è compier bell’opra: secondo aver buona fama. Se un uomo ambe consegue e possiede, toccò la ghirlanda suprema”.
Così cantava Pindaro nel la Pitica composta nel 470 a.C. in onore di Ierone Etneo vincitore con la quadriga nella settantasettesima Olimpiade.
Falaride era vissuto già da oltre un secolo e dal 570 al 555 a.C. aveva esercitato la tirannia in Agrigento: eppure la sua «fama odiosa» persisteva ancora tra le genti greche e grecizzate di Sicilia, i Sicilioti cioè, e Pindaro poteva raccoglierla e farne oggetto del suo canto.
Se Pindaro è il nome forse più famoso tra i poeti greci ad occuparsi di Falaride molti altri scrittori, poeti, storici antichi si occuparono di questo personaggio, tra i più noti dell’antichità e certo non tessendone le lodi bensì i vari aspetti del suo carattere perverso e cattivo. Se ne occupò anche Diodoro, lo storico di Agira vissuto nel 1° sec. a.C. nel XIX° libro (108,1) della sua «Biblioteca»: «I Cartaginesi fortificarono il colle di Ecnomo che si dice sia stato una fortezza di Falaride. Qui si tramanda che il tiranno abbia costruito il toro di bronzo che divenne famoso per essere riscaldato dal fuoco che ardeva di sotto per martoriare quelli che venivano sottoposti alla terribile prova: e così il sito venne denominato Ecnomo (fuorilegge) per l’empietà praticata sulle vittime»: addirittura una località avrebbe preso il nome dalle nefandezze di questo personaggio.
La fama di questo tiranno, sempre negativa, è durata fino ad oggi attraverso gli storici moderni se ancora recentemente uno dei più noti e illustri storici della Sicilia Antica, Moses I. Finley (Storia della Sicilia Antica, Bari, 1970, pp. 66-67) rifacendosi ad autori antichi, così ne parla: «… Falaride, questo straordinario ed enigmatico personaggio mitico — Uno scrittore posteriore afferma che egli prese il potere prima appropriandosi di una grossa somma affidatagli per la costruzione di un tempio di Zeus — il denaro gli servì per assoldare un esercito di mercenari composto di stranieri e schiavi che installò in un campo fortificato sull’Acropoli —, poi approfittando di una pacifica riunione religiosa per massacrare molti uomini e prendersi come ostaggi le donne e i bambini… Falaride rimase al potere per circa quindici anni, e per tutto questo
periodo sappiamo solo che egli condusse campagne vittoriose contro le vicine comunità sicane e che diventò il prototipo del mostro — si dice persino che avesse una predilezione da buongustaio per la carne dei bambini. Il suo maggior titolo di gloria è il toro cavo di bronzo in cui arrostiva quelli che erano caduti in disgrazia e la prima vittima, secondo la leggenda, fu proprio il fabbro che aveva costruito il congegno («fu l’unica azione giusta che Falaride avesse mai commesso»)».
Il Finley conclude dicendo che «è impossibile scoprire la verità che si cela dietro il mito di Falaride». Siamo d’accordo nel pensare che è quanto meno difficile, se non proprio impossibile, venire a capo delle verità che stanno dietro ai miti, sia antichi che recenti, ed anche, alle volte, dietro ai fatti storici: in questo caso particolare però una tale concordanza di testimonianze, sia pure con aspetti diversi, deve indurci a pensare che «nihil ex nihilo» e pertanto un fondo di verità deve pur esserci.
Tentiamo intanto di avvicinarci al personaggio e di vederlo più da vicino.
Seguendo il flusso delle migrazioni delle genti dal Mediterraneo orientale verso l’occidente, Falaride venne ad Agrigento forse nei primi anni del VI sec. a.C. dalla sua patria, l’antica Astipalaia (una delle isole del Dodecaneso, l’odierna Stampali): è noto come Agrigento fosse stata fondata da Gela nei primi anni del VI sec. a.C; Gela a sua volta era stata fondata circa un secolo prima dai Rodio-cretesi: in questo flusso migratorio e colonizzatore è da immettere quindi Falaride. Era quello un periodo in cui in Agrigento si fabbricavano quei templi i cui resti rendono oggi questa città una delle più note e più ammirate nel mondo: proprio per la costruzione del più grande di questi templi, quello dedicato a Zeus, Falaride ebbe affidata la sorvegliane. Egli aveva già una buona consistenza economica avendo già esercitato, per conto della cosa pubblica, l’esazione delle imposte dei dazi, attività che, com’è noto anche ai nostri giorni, procura considerevole ricchezza a chi l’esercita. La sorveglianza ai lavori del tempio gli dava inoltre un grande potere, non solo economico, ma anche dì dominio sulla massa di operai e di altre persone che, a vano titolo, gravitavano intorno ai lavori per la costruzione del tempio, anche perchè, negli stati ellenici, l’incarico della sorveglianza veniva dato per tutta la durata del lavoro che, com’è noto, non si esauriva in un breve lasso di tempo. Secondo una certa tradizione pare che abbia avuto addirittura l’appalto per la costruiione del tempio: comunque sia è certo che godeva in Agrigento di un grande potere del quale approfittò per impadronirsi della città e divenirne tiranno.
Esercitò il potere con molta durezza e con molta crudeltà, la leggenda del toro, di cui si dirà appresso, è l’esempio più tipico “la sua figura leggendaria apre la serie di quei tiranni di Sicilia che nell’antichità divennero proverbiali”(Holm). forse più che gli altri tiranni si può dire però che ogni aspetto della vita di Falaride sa di leggenda, e di essa si occupano quasi tutti gli autori antichi di varia epoca.
Quando Agrigento tentò di espandersi verso il Tirreno puntando su Himera pare che sia stato proprio lui, Falaride, il promotore di questa impresa; egli si sarebbe fatto nominare addirittura Generale dagli Himeresi; ad un certo momento chiese un corpo di guardie (con le quali avrebbe potuto impadronirsi della città) e gli Himeresi stavano quasi per darglielo, ma fortunatamente un loro grande cittadino, quello Stesicoro noto come autore di famosi componimenti poetici oltre che come «ordinatore di cori», come dice il suo stesso nome, lo impedì: non lo poteva certo impedire con la forza, ma con un apologo, quello del cavallo e del cervo che qui desidero ricordare per la sua semplicità ma, nello stesso tempo, per il suo profondo significato. Un cavallo se ne stava tutto solo in un bel prato pieno d’erba e tranquillamente mangiava; ad un tratto sopravviene un cervo e ovviamente anche questo si mise a brucare l’erba. Il cavallo allora chiese l’aiuto dell’uomo per cacciare il cervo. L’uomo cacciò il cervo, salì sul cavallo e ne diventò padrone. Gli Himeresi compresero il significato profondo di questo apologo e negarono il corpo di guardia a Falaride. Questi tentò anche d’impadronirsi di una città dei Sicani, Uessa, dove regnava un re di nome Tente la cui figlia richiese in sposa; a questo punto, per impadronirsi della città avrebbe inventato uno stratagemma per il quale mandò per servire la sposa, dei soldati vestiti da donna i quali, entrati che furono in città, se ne impadronirono.
Di episodi di crudeltà e di efferatezza di cui è intessuta la vita di Falaride se ne potrebbero citare parecchi; molti autori antichi, infatti, chi più chi meno, ce ne tramandano in grande copia: ovviamente alcuni sanno di leggenda, ma è noto come generalmente le leggende abbiano un fondo di verità; attraverso esse infatti, spesso, si ricostruisce la storia.
La fine di Falaride non poteva sfuggire a questo intreccio di leggenda e di storia e non poteva certo essere una morte naturale dati i molti nemici che avrà avuto e che egli per tracotanza avrebbe quasi incoraggiato e spinto contro se stesso.
A proposito della sua morte si racconta il seguente episodio: un gruppo di colombe volava placidamente, e un uccello di rapina le inseguiva per scopi evidentemente non pacifici: Falaride notò questa scena ed espresse il suo pensiero per il quale, se le colombe avessero avuto coraggio, avrebbero potuto vincere il nemico. Spinti forse da questo pensiero gli agrigentini, guidati da Telemaco, si rivoltarono contro Falaride che infine venne spodestato: la tradizione ci tramanda che fu bruciato in quel toro entro il quale egli aveva fatto morire, tra atroci tormenti, molti suoi nemici. Era tale l’odio degli agrigentini per Falaride che, dopo la sua morte, fu vietato di portare vestiti azzurri, essendo stato questo il colore usato dagli uomini di guardia del tiranno.
Non c’è un personaggio dell’antichità cui vengono attribuiti, da quasi tutti gli autori antichi, tali e tanti episodi di crudeltà: ma quello più eclatante che viene
Assimilato col nome di Falaride, da costituire quasi una simbiosi molto stretta, è quello del toro.
Ad un certo momento, molto probabilmente agl’inizi della sua «tirannia», Falaride avrebbe fatto costruire da uno scultore siciliano, Perillo, il primo artista siciliano di cui si ha notizia, un toro di bronzo, vuoto all’interno: era destinato ad immettervi dentro i suoi nemici che venivano bruciati vivi dopo averlo adeguatamente riscaldato accendendovi il fuoco di sotto; a tale scopo era dotato dì uno sportello all’altezza delle spalle. Si dice inoltre che sia stato costruito con tanta ingegnosità che le grida che emettevano le vittime somigliavano al muggito di un toro.
Quasi tutti gli autori antichi sono concordi nel ritenere vera la notizia dell’esistenza del toro; solo lo storico siracusano Timeo, vissuto nel IV-III sec. a.C, mostra alcune perplessità ma fondamentalmente accetta che a Falaride fosse connesso un toro di bronzo; inoltre uno scoliasta a Pindaro (Pit. 1,185) dice che il toro che Pindaro avrebbe visto a suo tempo in Agrigento non sarebbe stato quello vero bensì una immagine innocua del dio fluviale Gelas essendo stato quello vero buttato in mare quando cadde Falaride: si tratta comunque di un particolare che, anche se fosse vero, ma è difficile che lo sia, non smentisce la esistenza del toro che, come si diceva, è unanimemente ammessa.
Il toro avrebbe fatto parte del bottino di guerra quando, nel 406 a.C, i Cartaginesi conquistarono Agrigento e sarebbe stato trasportato a Cartagine; quando i Romani conquistarono Cartagine, Scipione l’avrebbe restituito ad Agrigento: Polibio che, com’è noto, fu il giornalista-storico a seguito degli eserciti romani alla conquista di Cartagine, adduce la prova che il toro restituito da Scipione ad Agrigento sia stato quello di Falaride contro chi sosteneva che non lo fosse, in quanto questo aveva lo sportello nella spalla attraverso il quale si introducevano le vittime all’interno del toro.
Questo, in sintesi, tutto quanto si può dire su Falaride e il suo toro. Gli autori antichi non ci forniscono altre notizie.
A questo punto però, al di là dei fatti e delle notizie riportate, dobbiamo oggi chiederci: come si spiega questo episodio del toro fatto unico della storia della Sicilia antica? Per spiegarcelo, o, almeno, per tentare una spiegazione, dobbiamo tener presente la personalità di Falaride e la situazione politica di quella parte della Sicilia nel periodo in cui operava Falaride.
Quanto alla personalità del tiranno ne abbiamo già detto: era un uomo senza scrupoli, crudele, tutto dedito all’interesse economico ed alla conquista del potere a qualsiasi costo.
La situazione politica della Sicilia Occidentale, che non poteva interessare la zona agrigentina, era dominata da Cartagine che, in quell’epoca, nella prima metà del VI” sec. a.C. esercitava la sua supremazia su tutta la Sicilia Occidentale; non è escluso quindi che il potere di Falaride a Imera e Agrigento (ecco come si spiega anche l’intenzione di Falaride di impadronirsi di Imera) fosse minacciato dai Punici. Che cosa avrebbe potuto fare di meglio un uomo senza scrupoli come Falaride per ingraziarsi i potenti vicini con la speranza di poter esercitare il proprio dominio e fare i propri interessi eventualmente anche con loro, se non imitare quanto di più sentito avevano i Cartaginesi in campo religioso? È noto il sacrificio al Dio Moloch: Diodoro, e altre fonti, ci tramandano che i Cartaginesi avevano una statua in bronzo di questo dio, la quale stendeva in alto le palme delle mani di modo che, deponendovi il fanciullo offerto in sacrificio, esso rotolasse giù all’interno della statua e cadesse in una grande cavità piena di fuoco.
A prescindere dalle notizie provenienti dagli antichi autori non c’è a tutt’oggi una descrizione del terribile sacrificio al Moloch cartaginese di quello immaginato da Gustave Flaubert nel suo noto romanzo «Salambò» e che qui mi piace riportare anche perchè, sostanzialmente, non molto diverso doveva essere il «sacrificio» al toro di Falaride: «… lanciavano nelle fiamme perle, vasi d’oro, coppe, torce, ogni lor bene; le offerte aumentavano, diventando sempre più ricche. Finalmente un uomo che barcollava, un uomo pallido e raccapricciante in viso di terrore, spinse avanti un bambino; quindi si vide tra le mani del colosso un nero fagottino tosto ingoiato dalla tenebrosa apertura. I sacerdoti si curvarono sull’orlo della grande lastra, un nuovo canto esplose che celebrava la gioia della morte e la rinascita nella eternità. I bambini andavano su lentamente; e, siccome il fumo involandosi produceva degli alti vortici, da lontano pareva sparissero dentro una nuvola. Non uno si muoveva. Avevano polsi e caviglie legate; e la stoffa scura che li avvolgeva impediva che vedessero alcunché, com’anche che venissero riconosciuti».
E ancora: «Le vittime appena sull’orlo dell’apertura, sparivano come una goccia d’acqua su una lastra arroventata e una bianca fumata saliva su tutto quello scarlatto. Eppure l’appetito del dio non si placava. Esigeva sempre nuove vittime. Per dargliene di più, gliele accatastarono in mano legati da una grossa catena. Qualche devoto in principio aveva voluto contarle, per vedere se il loro numero corrispondeva ai giorni dell’anno solare; ma altre ne vennero messe, ed ormai nel vertiginoso armeggiare delle orribili braccia, era impossibile distinguere. Ciò si protrasse a lungo a non finirla più, sino a sera»
