agrigento-1951
Questa via é di origine arabica, come sono della stessa origine le due porte della nostra città Beberria e Mazara e il Rabato, il quale, al tempo della dominazione araba, era un borgo abitato dagli arabi.
Fa in vero impressione il grande numero di parole arabe, che attraverso sette secoli si serbano ancora nel nostro linguaggio volgare, e che spesso il popolo usa senza conoscerne l’origine. Non ti recherà noia certamente, o lettore, se ti ricordo per semplice curiosità taluni nomi di oggetti e di luoghi, i quali hanno un nome arabo e che sono il solo monumento, che richiama al nostro pensiero la civiltà arabica, che sette secoli addietro splendette nell’attuale Girgenti.
La lingua araba si parlava nella nostra città, sino al 1300, e di generazione in generazione sono pervenute sino a noi non poche parole di quella lingua, che tuttodi noi usiamo. Per ricordartene alcune, ti dirò, che sono parole di origine Dica: arangiu, limuni, zagara, pircocu, zibibo, cannila, crivu, nziru, cafisu, rotula, tannura, tumminu, cammisa, fodali, mischinu, sciarra, tagaria, mammaluccu ed altre numerose. Anche taluni luoghi delle nostre campagne conservano il nome arabo, come: Bonamuruni, Sita, Busuné, Buaggiaru, Ragabu, Catta, Burraitottu ed altri. Ed oltre le numerose parole di origine araba si conservano pure nel nostro dialetto alcuni modi di dire e desinenze di nomi al plurale e di verbi nel passato rimoto proprie di quella lingua.
E non credo, o lettore, che intenda annoiarti, se così di passata ti rammento, che Girgenti sotto la dominazione degli arabi risorse dall’abbiezione, nella quale era stata ridotta dai secoli di brutale servaggio, bella, ricca e potente per la sua popolazione di oltre 60.000 abitanti, non compresi i villaggi e i castelli, per i sontuosi e seducenti palazzi con archi a sesto acuto, svelti, di stile architettonico tutto proprio, fregiati con graziosi arabeschi e di dipinture, per le sue magnifiche moschee, per i suoi pubblici edifici, per le sue fortificazioni solide, delle quali rimangono ancora in piedi presso la chiesa di San Pietro nella via Ravanusella le torri e un lungo tratto di muro sino alla chiesa di Santa Lucia; per l’industria agraria e manufatturiera, per il suo commercio con tutti i paesi del mondo, per le arti, le lettere e le scienze; per gli orti, i giardini, gli alberi fruttiferi e i vigneti che la circondavano.
Così bella, ricca e potente la descrive Edrisi nella sua opera, dedicata a re Ruggiero. Ma la brutalità, l’ira selvaggia e il cieco furore dei suoi conquistatori tutto distrussero, nessuna cosa risparmiarono; e la tirannide susseguente dei suoi dominatori ridusse con il lungo volgere dei tempi la città e i suoi dintorni nello stato misero nel quale era prima del 1860.
Il nome Bac Bac in lingua araba può significare saccheggiamento; e i nostri progenitori probabilmente battezzarono con questo nome la via per memoria di qualche sconfitta, nella quale i nemici misero a sacco la città. Questa via prima del 1860 era brutta di giorno per i vecchi e deformi muri che la fiancheggiavano, per il suo serpeggiamento tortuoso, stretto in alcuni punti di un tre metri e buia di notte. A sinistra di chi sale, incominciando dalla scalinata presso la casa Serroy sino al parapetto della via San Vincenzo, dove finisce, erano e sono tuttora il muro del cortile del monastero, dal quale nella parte interna sporge una palma la sua chioma verdeggiante, il monastero con il giardino delle terziarie Francescane, detto di San Vincenzo e un altro giardino di proprietà privata. A dritta erano e sono ancora i muri dei giardinetti, sorti sul suolo di case diroccate.

san vincenzo
Era una via solitaria e squallida. I pochi lampioni ad olio, posti a grande distanza, quando non erano spenti da vento, riverberavano nella notte una luce, come di lampade mortuarie, che metteva paura nell’anima del transitante. Ma il punto della via veramente mostruoso, anzi orrido, era quello dal palazzo Serroy sino al cantone del monastero, perché l’alto muro attuale di cinta, che incomincia dalla scalinata vicino il palazzo Serroy, che adesso é in linea obliqua, era prima in linea retta e molto vicino ai muri serpeggianti, mal costruiti e vecchi dei giardini di fronte, i quali formavano tre strette curve, aventi la forma S. Nulla oggidì esiste di tutto ciò che in quel tratto di via era deforme e vecchio: tutte le mostruosità sparirono nell’anno 1865.
Il muro del cortile del monastero, dov’è la palma, fu demolito e ricostruito, come si vede, per allargare la linea obliqua e il muro tortuoso dei giardinetti, che era ad esso di fronte e molto vicino, fu anche esso demolito e ricostruito alquanti metri indietro. E dalla casa un tempo di Celauro, oggi di Quartana, ove è in atto l’ufficio dell’agenzia delle imposte dirette, sino alla via del Duomo, la via Bac Bac divenne dritta, ampia, allegra di giorno e ben illuminata la notte. Se in questa via dritta, larga ed arcata non vi fosse il monastero, che ne occupa un lungo tratto, diverrebbe in un non lontano avvenire una delle più buone ed igieniche vie della città, decorata da case nuove e pulite.
mercato del pesca al chiano lena in via bac bac
Alcune case buone e pulite difatti sono state sul lato destro di chi saliscegià costruite ed altre sono in costruzione. Ma é vano sperare che il fabbricato, dov’è il monastero, possa essere destinato ad altro uso, perché l’amministrazione del fondo per il culto l’aveva ceduto al comune e da questo fu all’asta pubblica venduto con atto amministrativo del giorno 8 Ottobre 1909 e aggiudicato per il prezzo di £. 1 7250 al canonico Gaspare Bonfiglio, il quale l’acquistò, si dice, per incarico di una monaca ricca, che in esso monastero abitava. E’ perciò, sarà sempre un ricovero religioso di donne, di proprietà privata. E questo fabbricato, che si compone di venti vani a pianterreno e di dodici a primo piano, che avrebbe potuto destinarsi a qualche ufficio pubblico o essere concesso a privati, i quali avrebbero abbellita la via con case di abitazione e con botteghe, resterà per sempre una casa privata con fisonomia medioevale, squallida e muta, di donne che, fuggendo dalla società come luogo di pericoli e di seduzioni, vi si chiuderanno dentro per vivere una vita infruttuosa ed inutile, senza cure di famiglia e di patria.
di Francesco Paolo Diana (1912)