All’inizio del IX secolo dopo Cristo, mentre la Sicilia veniva conquistata dai mussulmani, la città di Agrigentum fu mira della conquista berbera; questi si insediarono sulla collina occidentale della città e in particolare lungo il pendio estremo occidentale (oggi Rabato) e qui scavando nella viva roccia formarono le caratteristiche abitazioni Troglodite.
Salvatore Bonfiglio, alla fine del se colo scorso, nella contrada Balatizzo a sud del Rabato, aveva scoperto un villaggio troglodita che egli credette essere bizantino, invece, e questo sarà approfondito meglio nel libro, tale villaggio era parte integrante della città berbera ad Agrigento. Neil’XI secolo la città musulmana conquistata dai Normanna fu ridimensionata con delle fortificazioni, escludendo da esse la parte estrema occidentale della città; quest’ultima rimase “extra moenia” cioè fuori le mura e fu denominata “Rabato” cioè sobborgo (dall’arabo Rabad). Sul Rabato non disponiamo di documenti storici in grado di atte starci con sicurezza le sue vicende dal periodo mussulmano ai nostri giorni.
Tuttavia il Rabato a chi lo percorre e lo scruta con attenzione e con amore, sa narrare la sua storia non scritta con i suoi viottoli simmetrici, con la sua struttura urbanistica caratteristica, e con le sue piazzette, con le centinaia di cisterne a campana che custodisce nel sottosuolo, con le case scavate nella vi va roccia e infine con la sua intensa vitalità fino a poco prima della frana del 1966. L’obiettivo è, dunque, cercare di narrare le vicende del Rabato nel tentativo soprattutto di delineare il diversa sviluppo storico, sociale, economico, urbanistico, in una parola, culturale, rispetto al resto della città. Con ciò si vuole dimostrare che il Rabato ha sempre vissuto una vita e una storia propria rispetto alla città dei Normanni, degli Svevi, degli Aragonesi, e così via.
Questo compito poteva essere anche svolto dagli storici se avessero avuto la pazienza di calarsi nella concreta realtà rabatese; in essa avrebbero trovato testimonianze persistenti della cultura arabo-sicula che si manifesta nel linguaggio, nella struttura urbanistica o negli utensili domestici e industriale forgiati nel tempo con le stesse tecniche tradizionali (di recente si sono trovati dei forni sotterranei, i più anti chi che si conoscano, che sino a trenta anni fa si utilizzavano ancora per la cottura per la cosiddetta ceramica in vetriata). Intanto gli apporti culturali impostati successivamente con le molteplici dominazioni (imposizione religiosa, creazione di istituti feudali sovrapposte alle già arcaiche forme rurali, ecc.) crearono i presupposti di uno spossessamento culturale del popolo rabatese che aveva mantenute integre le origini musulmane, grazie anche all’isolamento che la città alta imponeva.
A questo punto un contributo alle poche testimonianze storiche rimaste nel Rabato potrebbe fornirlo una ricerca antropologica, ricostruendo così un pezzo di storia dimenticata. Per ricostruire queste origini culturali bisogna seguire un ordine di lavoro dettato dalle ricerche bibliografiche, che apparentemente potrebbero allontanarsi dal contesto del libro, invece mettono in evidenza i contrasti fra una realtà prettamente rabatese e una realtà cittadina. A tal pro riporto tre articoli che evidenziano i contrasti sociali tra due realtà di vita Girgentana tra la fine del secolo scorso (il 1800) e gli inizi del nostro (il 1900): estratto dalla rivista “Akragas” del primo gennaio del 1913: Lettore, sei tu di Girgenti? Se nascesti in questa cittadina, proverai, ne son certo, un senso di piacere nello scorrere queste memorie, perché vedrai con soddisfazione il progresso materiale e civile che essa ha raggiunto in questi ultimi anni. Tu non puoi immaginare quali erano le condizioni materiali ed igieniche di Girgenti, capoluogo di provincia, negli anni che precedettero la epopea del risorgimento italiano; non puoi immaginare un comune cotanto abbandonato per colpa di un governo, che fu giustamente definito: negazione di Dio, e degli abitanti, senza amore per il paese nativo e senza idee di progresso civile…
Le povere e vecchie case sono quasi tutte sparite, trasformate o abbellite e oggi Girgenti apparisce come nuova”.
Diana nel suo articolo accenna alla trasformazione sociale ed urbanistica di Girgenti rispetto al periodo borbonico e però non fa menzione del vecchio quartiere popolare che era il Rabato, posto ad occidente della città e da essa diviso, sino alla fine del secolo scorso (1800), da imponenti mura medievali con l’ingresso principale dell’antica porta di Mazara (dall’arabo El Maha’ssar, cioè torchio o trappeto, luogo per manifatturare lo zucchero).
La miseria e la sporcizia regnavano in questo quartiere dove circa ottomila anime, in prevalenza contadini, sopravvivevano stipate in misere case (catodi) zeppe e affollate anche di animali: testimonianze in questo senso vengono da due lettere scritte ai giornali “Rupe Atenea” e “La Scopa”.
Estratto dalla Rupe Atenea del 12 agosto 1873: “Pulizia al quartiere S.Croce del Rabatello”: “Aumento dei facchini ed ordini severi e perentori han prodotto maggiori alacrità nel mantenimento della pulizia in talune strade. Qualche cosa ne han perfino risentito la strada Atenea, sezione Rabato, battezzata nelle carte via Garibaldi. Ma nelle svariate vie e vicoletti e piazzette e cortili al di sopra della Chiesa S.Croce si è visto poco, pochissimo, quasi nulla addirittura.
Molti e gravi inconvenienti, immense materie sporche accumulate, insoffribile il fetore, strade assolutamente impraticabili, urgente deve esser l’opera del municipio per riparare prevenire danni maggiori (…) la salita. Per dirne una, Santa Marta ha la piacevole pendenza di 50% circa sopra il suolo di pura argilla ! Figurarsi quando piove o quando vi si getta un pò d’acqua! Il passarvi diventa qualche cosa come la salita di un trave zavorrato alla festa della cuccagna! E1 umanità, è -cari tà di patria – non osiamo parlare di dove ri civici – il pensarci un tantino seria mente, oh!, che non vi abita forse gente cristiana anche colà? (…)
Da “La Scopa” del 12 agosto 1917: Rabato in abbandono.
“In tutti i tempi, e molto più in estate si è lamentata sempre una grande penuria d’acqua nel povero Rabato, dove ben ottomila abitanti son costretti a dissetarsi con le sole quattro fontanelle che quasi ogni giorno scorrono lentamente per la durata di circa un’ora. Ciascuno quindi immagini il desolante spettacolo di vedere centinaia di persone che si affollano, si pigiano, si rissano con la speranza di attingere un po’ d’acqua almeno per il più stretto uso domestico, e che la maggior parte ritorna poi con i loro recipienti vuoti imprecando contro i signori dell’amministrazione comunale che li ten gono assetati (…).
Oh! Si ricordi il signor pro sindaco dei tanti reclami privati e collettivi a lui presentati su tal riguardo; si ricordi delle tante promesse fatte da lui agli amici; si ricordi che anche i cittadini di Rabato pagano anche essi tasse e balzelli e quindi, come gli altri, han diritto di ripetere: Da aquam, ut bibam.
L’acqua invece di venderla e darla per la coltura dei giardini privati si dia piuttosto egualmente a tutti i cittadini, i quali sono stanchi del Surdo Canamus.”
Il Surdo Canamus di cui parla la lettera di protesta, è una peculiare espressione di indignazione per la condizione socio-economica e per la penosa situazione igienica in cui versava il quartiere.
Certo le lotte fra le classi sociali non erano così retoriche come appaiono in questi scritti, esse in realtà si manifestano coerentemente alle loro condizioni sociali, in forme di lotta molto più violente. E le lotte popolari, verificatesi alla fine del secolo scorso, furono segna te e alimentate dall’antico e diffuso antagonismo tra le classi sociali: ecco come i “liberali” agrigentini di allora de scrivevano una rivolta popolare: il 31 luglio del 1870 si organizza una strepito sa dimostrazione degli operai spinti da un tale che avrebbe voluto partecipare al la comunale amministrazione.
Si vede un operaio con un pane nero inforcato da una verga di ferro, seguito da moltissimi che gridano “abbasso il Municipio!” il delegato avvocato Vincenzo De Luca strappa quel simbolo di sedizione dalle mani di quel turbolento operaio, e fra breve la calma ritorna nella città – da ciò segue la dimissione della Giunta a 13 agosto.”
Delibera 19 agosto 1870 vol. XXIV F. 4 “memorie storiche agrigentine” di G. Picone.
“Il 20 agosto 1873 imponente e numero sa dimostrazione di popolo per la carestia dei viveri. Si grida “abbasso il Municipio, abbasso il dazio di tari 16 a salma sul frumento. E’ una specialità vedere molti contadini associati a quella calca. Essi non si sono fatti mai vedere né nel 1848, né dal 1860 in poi. Il popò lo scende alla casa del prefetto, da cui ottenute promesse soddisfacenti, si riti ra tranquillamente.” -(I) delibera settembre 1873 vol. XXX F. “Memorie storiche agrigentine” di G. Picone.
La descrizione “Piconiana” non ha bisogno di commenti, basta dire che quando si parla di contadini il più delle volte ci si riferisce ai rabatesi.
Dall’Unità d’Italia agli inizi del nostro secolo i rabatesi ,non ebbero nessuno alla civica amministrazione; solo alla fine degli anni ’50 riuscirono a farsi rappresentare dal primo delegato, ricordato tuttora dai vecchi abitanti del Rabato: don Alfonso Pirrera.
Don Alfonso Pirrera, contadino e semianalfabeta, gestiva la cosa pubblica in modo singolare e bizzarro rappresentando, a modo suo gli interessi degli abitanti del quartiere; trascorreva le sue giornate di amministratore giocando a carte, bevendo vino e fumando toscanelli nelle tristi bettole della città “mentre”, raccontano alcuni suoi vecchi elettori, ancora – assidui frequentatori di bettole – fuori, vicino la cantoniera sudicia di sterco, un “suo” fedele spazzino, pagato dal municipio accudiva al suo inseparabile mezzo di trasporto : u sciccareddu; e tra una partita e un bicchiere di vino, accarezzandosi i folti baffi, impartiva in mo do perentorio e spigolare severi ordini di servizio ai “suoi”spazzini comunali”.
Prescindendo dall’aspetto morale e politico del soggetto in questione, negativo o positivo che fosse, egli in ultima analisi era il rappresentante di un ceto sociale (contadini, mezzadri, etc.) ancora non estinto e non del tutto contaminato dell’ideologia della mafia locale; questa prese il sopravvento nella metà degli anni ’60 “specializzandosi” successivamente nella speculazione edilizia la causa principale della distruzione del Rabato e di tutto il centro storico di Agrigento; tuttavia proprio tali soggetti furono inconsapevolmente un passaggio obbligato, divenendo per forza di cose i capi elettori dei “notabili” della città, o meglio, i mediatori fra le classi emergenti in continua trasformazione, oggi folta schiera di speculatori senza scrupoli; per concludere, il Pirrera, ma non solo lui ha funzionato da cerniera fra le classi sociali in trasformazione divenute sottoculturate o meglio spossessate.
Continuando sul contrasto sociale tra il Rabato e la città murata, una fondamentale differenziazione era certamente il linguaggio: tutt’oggi, fra i vecchi abitanti rimasti si può riscontrare la classica “parlata rabbatiddisa”; essa è notevolmente diversa dalla parlata prettamente agrigentina sia nel suono gutturale che nella pronuncia, tanto che gli abitan ti degli altri quartieri presero l’abitudine di sfottere i rabatesi.
E’ il prof. Raccuglia, seguendo le orme di G. Pitré, ad annotare nel blasone popolare girgintano, pubblicato nella rivista “Akragas” nel marzo del 1913 questa filastrocca: “Chi sì rabbatiddisi? Significa parlare male, rozzo, e questo parlare si suole render nel detto “Cci veni o Rabbaté – a mangiari sausizza? Nell’altro fanciullesco,e — fors’anco da scolari: “Sciccaré, (sciccareddu) cci veni- . o Rabbaté – ca ti du gnu pani e cafè ? nei quali, non tanto la parola, quanto 1′ inflessione della voce serve a ripetere la pronuncia locale.” Fin qui 1’emigrazione del Rabato, un ostracismo campanilistico e un antagonismo, alimentato anche, dal ruolo congregazionistico delle parrocchie e dei conventi monacali.
Ma nei momenti storici più delicati l’antagonismo si incrinava lasciando spazio alla ribellione popolare, a dei momenti di lotta che però sempre, e qui la storia si ripete, ricadevano sulla classe conta dina agrigentina (…). Nella metà del se colo XVIII il popolo girgintano in rivolta, bruciò persino il palazzo vescovile e il vescovo Traina dovette rifugiarsi per un lungo periodo nella città di Naro.
Rivolte di questo tipo, spinte dalla fame e dalla siccità erano spesso capeggiate dal popolo rabatese, contadini e artigiani, a volte citati da eretici nel “libro verde di Girgenti”. D’altra natura fu la rivolta del 1718, anno in cui dominavano i savoiardi; gli agrigentini, pacificati col clero, insorsero contro la guarnigione piemontese di stanza all’ex castello arabo (attualmente serbatoio d’acqua “Itria”).
La rivolta era capeggiata da un contadino rabatese di nome Zosimo, il 18 luglio 1718 il popolo attaccò la guarnigione piemontese al grido: “viva il Papa, viva la Spagna”, trucidando barbaramente sia i savoiardi che i girgintani “traditori”.
Queste rivolte popolari si verificarono spesso dal XVIII secolo sino alla fine del XIX secolo e più spesso si erano verificate dal XIII al XVII secolo, quando le rivolte erano alimentate da tensioni sociali legate anche al problema delle abitazioni, problema di primaria importanza nel tortuoso sviluppo urbanistico-sociale della città di Agrigento e in particolare del Rabato. Nel XII e nel XIII secolo le abitazioni Troglodite, di more per eccellenza, dei contadini e de gli abitanti del Rabato, erano esenti da balzelli varie, in quanto non erano considerate strutture murate.
Dal XV secolo in poi, quando nel Rabato settentrionale le abitazioni Troglodite andarono modificandosi in strutture murate (i cosiddetti “casalini”) i feudatari si arrogarono il diritto di usufrutto esigendo massimi tributi e puntuali pagamenti. I contadini perciò furono obbligati a pagare, oltre che la secolare gabella sul raccolto, il tributo sulla dimora nel Rabatello (parte settentrione le del Rabato); anche da queste imposizioni tributarie, si spiegano i …motivi delle basse elevazioni dei fabbricati oltre che dalla condizione economica; per ciò i contadini e gli abitanti del quartiere, intelligentemente, sfruttarono a loro favore gli 80/90 centimetri di scavo originarie delle abitazioni troglodite, costruendo su di esso una struttura in conci di tufo alta 100/120 centimetri (oggi, in quasi tutte le abitazioni del Rabato, il pavimento è al di sotto .del livello stradale di circa 50/60 centimetri), solo in questo modo riuscirono a sfuggire alla tassa sul fabbricato.
Tuttavia, poiché il Rabato, posto fuori le mura della città, era diviso in feudi, ogni feudatario poteva, in qualsiasi momento, sfrattare il contadino o l’artigiano dalla “sua” terra e magari donarla con l’abitazione a beneficio ecclesiastico; a loro volta, i vari ordini religiosi presenti nel luogo (mercedari, carmelitani, domenicani, di Francesco di Paola ecc.), incameravano i beni patrimoniali donati dal “benefattore feuda tario” dandoli a censo o vendendoli agli acquirenti.
Per sostenere questa tesi, cito qui due bolle vescovili:
1) “rescritto, per quale si permette alla S. Distribuzione di vendere e dare a censo un tenimento di case composto di sei corpi ed un giardinetto… anno 1661 +8 pag. 808.
2) “rescritto pontificio, per quale si accordò ai padri di S. Francesco di Racla di potere dare a censo alcune case e terre nel Rabato… anno 1740-41 .pag. 730.
Questa “Santa Distribuzione” continuò sino al 1860, dopo di che i beni ecclesiastici vennero incamerati dallo Stato Italiano, il quale, attraverso i vari comuni, li vendeva a prezzi simbolici; allora, tra gli affittuari che per tanti anni avevano pagato il censo ai vari ordini religiosi, incominciò a insinuarsi il malcontento, perché numerosi transfughi della rivoluzione risorgimentale si accaparrarono di più “catoi”, cedendoli poi in affitto a prezzi onerosi o abbattendoli per costruirvi signorili abitazioni.
Non solo i “catoi” vennero incamerati dallo Stato, ma anche le proprietà terriere abitate da un grosso numero di contadini, di conseguenza si verificò, in questo periodo, una immigrazione forzata dalla campagna alla città. Ma la città di Girgenti non poteva contenere nelle sue antiche mura nuovi cittadini e nuove costruzioni, l’ondata immigratoria per ciò si riversò nella zona del Rabato, indubbiamente più adatta ad accoglierla; in pochissimi anni il Rabato aumentò di popolazione e di nuove ma modeste abitazioni per i contadini e aumentarono i disagi, economici e soprattutto dell’ approvvigionamento idrico, in seguito ad un’ordinanza comunale di chiudere le ci«ter ne private, questo provocò numerose rimostranze da parte dei rabatesi. (…)
Dunque, fin qui le prime considerazioni storiche sul quartiere del Rabato che la nostra generazione ha deciso di far morire, lentamente e senza i suoi vecchi abitanti (dopo la frana del ’66 la maggior parte dei rabatesi è stata trasferita nel quartiere satellite di Villaseta).
Oggi, nella realtà rabatese, materialmente dissipata, si aggira lo spettro desolante delle case distrutte, l’immagine di un futuro che non ci deve appartenere; da ciò il mio impegno sociale e civile per la salvaguardia e il recupero di alcuni elementi architettonici nel Rabato, ultimi resti di una civiltà ancora da conoscere e da capire; non sono sicuramente antiche abitazioni troglodite ne ricalcano perfettamente l’originaria struttura, utilizzata come civile abitazione, sino al momento della frana del luglio 1966, e definita “architettura spontanea”.
(Le vere abitazioni troglodite sono state letteralmente distrutte nel corso del nostro secolo, uniche testimonianze rimangono le centinaia di cisterne, in arabo “masnà”, distribuite in tutto il Rabato). Se vogliamo recuperare il Rabato, per restituirlo alla cittadinanza, a un miglior uso abitativo, bisognerà . lottare affinché il concetto della conservazione del Centro storico non si limiti soltanto alla restaurazione del singolo monumento che il più delle volte lo privatizza togliendolo alla collettività.