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Agrigento la caotica storia urbanistica della città

1 Agosto 2014 //  by Elio Di Bella

di Settimio Biondi

Chi volesse, con animo non alieno degli interessi sociologici, intraprendere il tentativo di scrivere una storia urbanistica di Girgenti-Agrigento dalla (ri)fondazione araba della città alla frana nel 1966, si scontrerebbe con l’imbattibile difficoltà della mancanza di fonti documentali e con un secolare vissuto di noncuranza liquidatoria e di silenziosa ricalcitrazione. Per l’ultimo lasso di tempo cronistorico ci soccorre in verità l’abbacinante dovizia della relazione Martuscelli, troppo vicina da poterne trarre un sereno profitto.

La storia di Agrigento si basa sulle fonti storiografiche generali e su alcuni documenti ecclesiastici e del potere Regio, specie per l’età aragonese. La loro caratteristica è la specificità mentre le fonti storiografiche generali sono state lungamente rilette e vanno ancora vagliate con insistenza alla ricerca di informazioni, di notizie o di indirette illuminazioni che si riferiscano agli uomini ed agli avvenimenti locali.

E’ tuttavia improbabile che resti ancora qualcosa da rinvenire, tra quei racconti e memorie della cronaca illustre generale, scritti sotto il nome di “storie” e di acconce particolarità di titoli da protagonisti e testimoni partecipi agli eventi, come fu dei vari Nicolò Speciale e Bartolomeo di Neocastro. O che rimangano altri documenti diplomatici ed ecclesiastici da specillare nel tentativo di suggerne qualche altro senso, di trarne una ulteriore favilla sopita o non scorta o qualche piccola specchiatura di valore mediato con cui reperire altri frammenti di conoscenza storica locale.

Per quanto riguarda l’età più antica e cioè quella araba, Michele Amari ha rintracciato, tradotto e ponderato tutte le fonti a suo tempo disponibili presenti nelle principali biblioteche d’Europa. Nel corpus da lui raccolto e discettato si trova anche la storia di Girgenti tra l’evanescenza del potere bizantino, la conquista araba e le vicende che ne affermarono non senza intestino travaglio il dominio.

giuseppe picone

La Sicilia gli deve moltissimo, così come Agrigento deve quasi tutta la propria memoria a Giuseppe Picone che nella sua opera storiografica si è avvalso dei frutti di quella stagione conoscitiva e dei risultati dell’Amari, introducendo nella nostra città un importante avviso di critica storica che dopo di lui, in verità, è stato generalmente sottovalutato.

L’idea fondativa del Picone era che per fare storiografia bisognava avere in mente un disegno storico, in certo qual modo ideale ed attuale, che era qualcosa di ben diverso da una idea direzionale della storia. Di per sé quest’idea può essere indifferente, in quanto possiamo metterla a disposizione dei tempi o farla dipendere dalle propensioni culturali degli studiosi, ma non si può rimanere indifferenti innanzi alla storia, la cui conoscenza è la nostra verità possibile.

Per il Picone la tesi storiografica agrigentina era costituita dal periodo classico e dunque dalla storia grecoromana di Akragas; l’antitesi del periodo medievale e in particolare arabo, e la sintesi dalle età patriottica, risorgimentale e unitaria che ne rappresentavano l’attuazione e quindi anche l’attualità e la possibilità di cronaca.

Scrisse dunque della storia di Agrigento come Francesco De Sanctis aveva scritto della storia della letteratura, con la pompa di una grande idea. Oggi, naturalmente, siamo tutti più increduli e smaliziati.

Chi volesse scrivere una storia urbanistica di Girgenti-Agrigento incorrerebbe dunque, dopo aver acquisito o data per scontata la conoscenza della fondamentale e solitaria opera del Picone, in un limbo. Ponendo l’esigenza lapalissiana di superare quant’è stato appreso finora e mirando ad un più scaltrito, ristretto e specialistico campo di risultati, si troverebbe a rotare intorno a se stesso ed oggettivamente intorno alla storia della città. La conoscenza storica di ciò che è stato ad Agrigento ha avuto la meglio su ciò che essa è stata nella sua biologia urbanistica, e non solo.

La storia dell’andirivieni vicissitudinale ha prevaricato la storia fattuale, e l’ominazione ha avuto la meglio sull’ambientazione. Paradossalmente si potrebbe giungere a dire che la storia che ha avuto luogo nella Città, sia topicamente che per averla avuta ad oggetto, si è svolta contro di essa: sia dal punto di vista urbanistico che sociologico e fors’anche culturale.

In effetti le fonti e la letteratura storiografica agrigentina concernono quasi esclusivamente (e per i tempi più vicini maniacalmente) gli interessi degli uomini, le traversie dei gruppi e delle masse (che il Picone, quando non ne approva il movimento e l’operato, definisce plebe, nell’eterno presente della famosa invettiva libertiniana), l’analisi dei poteri e la narrazione delle loro prosopopee; i contrasti tra le parti, la difesa di vecchi privilegi e la ricerca di nuovi. La Città è teatro di tutto ciò, ma quasi inesistente o ininfluente, luogo cioè dove lo svolgimento dei fatti non la rappresentava, non solo avendo la meglio sul ricettacolo comune ma mostrandosi come se ne potessero fare a meno.

E’ possibile scrivere una storia di Palermo lungo il parallelo urbanistico, come storia di borghi, campagne intercluse, fiumi sotterrati, quartieri liberi e quartieri murati; mura, porte e corporazioni; chiese, piazze, sestieri e monumenti. Ad ogni svolgimento corrisponde un momento topo-urbanistico, edilizio, viario e monumentale perfettamente simmetrico. Anche le distruzioni, le dilapidazioni e gli ammanchi finiscono col diventare simmetrici ed esplicativi. Nell’un caso e nell’altro, la storia non è passata invano né l’ambiente si è dato solo al passaggio del suo sguardo, ma l’ha intercettato e fissato.

Non è possibile fare altrettanto di Girgenti-Agrigento. Eppure la storia della Città è stata importante, ed enormi gli introiti dei suoi poteri, ad incominciare da quello ecclesiastico. Solo la famiglia chiaramontana ha lasciato un bilancio e un resoconto in opere formidabili e ammirevoli, e nel mondo delle cose prima ancora che nell’empireo dei significati politici della sua azione.
Sembra che la grande storia e le risorse della Città si siano di epoca in epoca sviluppate su un misterioso inghiottitoio.

Uscendo dai tempi più alti il mutismo delle fonti viene rotto qua e là sempre meno sporadicamente: prevalgono sui documenti pubblici quelli privati e civili del vecchio sterminato fondo notarile. Dai rogiti, tra testamenti e costituzioni, alienazioni ed acquisti, ricognitori e commissioni, contratti di opere e dotazioni è possibile prendere quelle notizie che tornino utili alla storia urbanistica. La raccolta di una serie di informazioni minori e particolaristiche può tramare una rete di conoscenze interdipendenti e rendere possibile l’approccio con un crescente sistema di inferenze. Così può anche accrescersi in chi vi abbia trasporto la capacità del lavoro intuitivo.

Nel mare di questi documenti si può incorrere nella fortuna di trovare incartamenti prodighi di informazioni suscettibili di collegamenti e di nuove aperture conoscitive. Quando gli accade il ricercatore si trova nella felice condizione del navigatore solitario che sfrutta la virtuosa corrente in cui si è imbattuto.

A differenza degli scopi la fortuna non può essere prefissa, anche se non manca chi assume di aver ricercato ciò che ha avuto l’avventura di trovare. Ma anche le scoperte fortuite riescono sommamente utili perché nel buio ogni luce illumina tutti i passi, a prescindere dalle loro direzioni. Anzi dobbiamo proprio a rinvenimenti inopinati l’apertura di nuovi interessi e campi d’indagine, cosicché i diverticoli possono rintracciare il sistema della via principale, e questa li alimenta e se ne avvale prima ancora di essere del tutto scoperta. Mi sembra una buona metafora.

La pretesa può rimanere lontana dalle opportunità, ma con una serie di dati disponibili, diretti o indiretti, variamente racimolati e pervenuti, e fluttuanti nel vasto quadro cronologico, può cominciarsene la fondazione, parallelamente alla prosecuzione della ricerca.

Può schiarirsi così la biologia storico-urbanistica della Città: dalle minori effluorescenze edilizie agli episodi di maggior momento monumentale ed artistico. Dai riempitivi volumetrici agli slargamenti desertivi per crolli e fatiscenze. Dalle caratteristiche e dominanze tipologiche dei quartieri parrocchiali alla singolarità delle isole rionali: il tutto nel marasmatico sviluppo reticolare del sortilegio viario, che a mio giudizio costituisce quanto di più originario e conducente conservi il centro storico.

In una ricerca di questo genere la fantasia non dovrebbe venire bandita, purché fosse l’immaginativa della ricerca stessa, la sua inquieta perlustrattrice, e non già una cattiva sirena. Attraverso l’accelerazione dei dati disponibili, infatti, con la prova d’assalto di ogni interconnessione possibile, una buona fantasia potrebbe muovere ed animare le varie ipotesi di lavoro e nel contempo riposizionarle mediante un continuo lavoro di scarto e la costante provvisione dell’indagine generale: proprio come nella formazione di un puzzle.

Di sistemico ed imprescindibile dovrebbe comunque procedersi jure ingenii, per divinare le notizie e le informazioni bene al di là della loro lettera documentale, e quindi secondo la loro mobilità significativa.

L’ingegno va infatti utilizzato come un’energia di lancio e di arrivo della ragione e non già come una sua forza gravitazionale né secondo le sue statiche facoltà di lettura, di comprensione e di interpretazione. In altri termini, la ragione non deve stare immobile al centro dei problemi ma, come si dice oggi con un brutto neologismo, farsene carico ed incalzarli senza posa.

Abbiamo accennato al metodo, tuttavia questo tipo di ricerca, per quanto l’assecondasse, si scontrerebbe, se non di più, in due ostacoli. Il primo inerirebbe certamente all’interrogativo urbanistico “latu sensu” inteso del periodo arabo.

Qui la problematica è oscura e le rispondenze sono bloccate o forse compiegate nell’ansimo e nell’ulteriore sviluppo della città, sia che ne abbia ripreso costrutti, colori, corposità e aggroppamenti (per non parlare minimalisticamente di determinate tipologie edilizie) sia che le abbia aggirate. Il come porre l’interrogativo non si discosta modalmente dall’opportuno dubbio di non porlo. Ad ogni modo ci sembra certo per evidenza che l’urbanistica del periodo ha lasciato indelebile disegno viario e delle planimetrie al suolo, come se l’avesse tracciato con un inchiostro tanto grasso da non lasciar rimedio ad altre bozze.

Il secondo ostacolo concerne i secoli dal XV al XVIII, quando in ogni città degna di tal nome si afferma la moderna volontà di progetto. L’esigenza è pervasiva, ed è stato osservato che via via che si va avanti a forza di progettare modifica il rapporto con il fare architettura, sia in relazione ad ogni singolo episodio che nell’insieme. Il progetto infatti si sostituisce a quelle che in precedenza erano state le tipiche manifestazioni degli stili.

Quanto al secondo termine del rapporto rileviamo che Girgenti, per quel che ne resta, ha avuto una notevole architettura dominata dagli stili se non addirittura, come nel lasso chiaramontano, marchiata politicamente da essi.

È evidente che con la parola progetto non alludiamo al supporto cartaceo che lo presenta e lo documenta, né ad alcun passaggio amministrativo. Ci riferiamo esclusivamente alla volontà ed all’intelligenza progettuale, ed all’esistenza di queste manifestazioni. Per limitarci alla Sicilia il subingresso progettuale appare lampante a Palermo, Trapani, Siracusa etc., per non dire delle decine di città e cittadine della Sicilia orientale ricostruite a tappeto dopo il sisma di fine ‘600. Gli esempi si affollano: mi piace trasceglierne uno dei meno allegati: la costruzione delle chiese di Scicli ed in particolare la realizzazione di quel capolavoro di benessere che è la via Mormino-Penna.

Il prevalere del progetto sugli stili potrebbe essere considerato per la nostra Città alla guisa di un disimpegno, o di un infingimento successorio, se non come un vero e proprio nascondimento o depistaggio urbanistico ed architettonico. Ce lo dicono le poche tracce di un costruire classico rinascimentale che qui acquista toni di illusorietà e di caducità: come un dire che l’andazzo sarebbe passato e che tuttavia era nel passaggio utile ad occultare un altro passato di cui più non si aveva memoria, quasi che al suo posto allignasse la coscienza della definitività e della fine. Ce lo dicono i meno rari elementi tardi e post-barocchi.

Per alcuni edifici, che vi ubbidiscono come in uno standard di nuovi e calati ritrovati, i progetti sono esistiti: in materia la ricerca (Alessi, Capodici ed altri) ha compiuto notevoli progressi, la cui prosecuzione consentirà certamente altri recuperi e connessioni.

Il problema non è quello di vedere se dietro la costruzione vi sia o non vi sia stato un progettista, circostanza indubitabile che falsifica la formulazione del quesito; il problema è quello di vedere come progettisti e costruttori abbiano visto, nel progettare qualcosa di nuovo, la Città, per poi rivederla secondo e con le loro opere, aggiuntive o sostitutive che siano state.

Ho sempre avuto il sospetto che la settecentesca rinascente agrigentina, con costruzioni e rifacimenti di chiese, abbia ubbidito ad un lavoro di messinscena mediante il cambiamento di alcune scene, ed attraverso, diciamo così, la riduzione o la volgarizzazione del preesistente, sia che fosse immaginario sia che, nel momento demolitorio-ricostruttivo, se ne avesse ultima e forse sfuggente contezza.

Non è dimostrato, ne può essere in ogni caso dimostrato, che ciò che avveniva altrove sul piano generale della cultura urbanistica e storico-artistica, avvenisse anche qui. Sarebbe una dismisura leggere e tentare comprendere Girgenti come se non fosse Girgenti, facendo cioè ricorso a modalità storiografiche non eccezionali proprio dinanzi al dubbio di una eccezione socio-economica e culturale.

Dalla cacciata degli ebrei la Città non s’era più ripigliata; essa, non raggiunta dal disastroso sisma secentesco, era stata interessata da uno smottamento lento, continuo di capacità, d’arti, di commerci, di cultura. Naturalmente c’è ancora chi si ostina a perorare l’immiserimento urbanistico ed edilizio di Girgenti come conseguenza di peste e moria, ancorché rifacendosi a fonti e documenti che lo consentono, ma senza sviscerarne la falsità ideologica né l’originario ufficio dell’auto-abbindolamento (pietoso o, a seconda dei casi, patriottico).

Ci fu addirittura un tempo in cui l’intelligenza agrigentina era rappresentata da elementi venuti da fuori. La “famosa triade letteraria cinquecentesca” della Città era formata da uno spagnolo, da un netino e da un alcamese. E così via. Peste e moria nascondono una crisi profonda che ebbe altre origini di intolleranza e di snaturamento della composizione demografica locale. Forse matura in quell’epoca la sordida rabbia dei naturali indigenti, ignoranti e pitocchi nei confronti di Gerlando di Besançon, responsabile come santo patrono di Girgenti di proteggere i forestieri. La popolazione indigena, immiserita, stupita e brancolante, non aveva saputo trovare altra spiegazione per spiegarsi il regresso.

Riandiamo alla conquista araba, quando Girgenti succede con nome guasto e derivato ad Akragas greco-bizantina in un suo lembo d’altura rupestre e defilato: l’ombra dell’antica metropoli deserta definitivamente la plagra pianigiana, lasciandola alla riconquista della campagna. Gli arabi hanno un notevole spirito di adattamento ed accreditano il settore dell’acropoli di un tardo insediamento bizantino, quello del Balatizzo. È tutta qui la prima Girgenti, già col suo Rabato, ed è quello che intendiamo per rifondazione della città, al di là di ogni sottilizzante discussione filologica.

Mancano dati e reperti, e non troviamo parimenti motivi per non credere che la città berbera sia stato un vero e proprio attendamento di murature, agglomerate e rese urgenti dal successo agricolo e commerciale del nuovo centro. Fa un torto alla storia urbanistica di Girgenti semitica chi, per obbligo e meccanica trasposizione di letture sull’arabismo in generale e in dipendenza dei suoi valori acronicamente considerati, la raffigura e l’impone all’altrui comprensione alla stregua e con le caratteristiche delle grandi metropoli arabe fiorite in tempi diversi nel Medio Oriente, in Spagna e – perché no – in Sicilia con la panormita reviviscenza della fenicia Al-Aziz.

Ma Palermo fa caso a sé, essendo divenuta la più bella città dei mortali del proprio tempo, tanto da far classe con le più grandi e sontuose città dell’ecumene semitico, anche se ne rimane inferiore per cultura (che però ebbe, per una spiegabilissima ragione, forte ripresa in periodo normanno, talché se ne è fatto un periodo arabo-normanno).

Ma l’esempio del modello palermitano non può essere pedissequamente rilevato ed imposto alle vicende culturali e costruttive di ogni altra città fondata o ristorata dagli arabi nell’isola. Si è nel ridicolo storico quando, per supponenza derivata da “lecturae” infiammatorie, o da fretta irriflessiva e copistica, o da una erudizione priva di saggezza, di senso della critica storica e di ogni misura dubitativa, si relaziona per allegato circa l’esistenza in Girgenti di grandi cupole e monumenti maiolicati, di bagni pubblici fantastici, di lustri ceramici rispecchiati da un edificio all’altro, e via dicendo.

Le Città ebbe certamente la sua buona, decorosa moschea, di cui fino alla metà dell’800 si era conservato il toponimo. Ebbe una edilizia sopraelevata ed assiepata, con fondaci e catodi terreni, come si osserva ancora nelle città berbere collinari per un intenso sfruttamento delle aree e per un bisogno intensamente mediterraneo di impelagamento umano e di promiscua materiale socialità.

Non mancò di locali pubblici per i bagni, grazie alle prescrizioni sanitarie del culto coranico, ma non certamente del tipo immaginato avventatamente da qualcuno, e cioè ricchi e fulgenti.
Con la moschea ebbe chiaramente chiese e luoghi di culto per le tre altre ubbidienze religiose che, accanto alla parte musulmana, formavano la popolazione.

Non potè mancarvi una rabbica o pubblico magazzino collettore per l’ammasso obbligatorio di un certo quantitativo di cereali. Essa costituiva l’istituzione regolamentativa del mercato del grano, fiorentissimo nella Girgenti semitica come lo era stato nelle Città greca e come lo sarebbe stato per molti secoli. L’arabica custodiva le riserve o scorte alimentari tesaurizzate dalla città per far sì che commerci ed esportazioni, movimentate dal lucro dei privati, non giungessero a debilitare i consumi interni ne ad affamare la popolazione in caso di carestia.

L’impianto viario di cui la Città fruisce ancora è di tratto arabo, pur inglobando le piste e i diverticoli greci che avevano collegato Akragas al borgo dell’acrocoro. Non vedi regola, non trovi geometria, ma una grafica che si fa percorrere come lungo una incisa descrizione deambulatoria; con i suoi tratti mistilinei, virgolati di corti e cortili semipubblici e semiprivati; con i suoi collegamenti ad ansa o a triangolo; con i suoi scarti a nicchio, i suoi diradamenti, le chiazze.

A percorrere questa rete non vi è nulla di ossessivo, se non l’orografica fatica del saliscendi: nulla di convulso, di assillante o di ottenebrato, com’ha voluto vedervi chi ne ha fatto l’esatto contrario di una pianta solare ed ippodamea. Se c’è marasma, è della fantasia: o meglio, di una diversa razionalità dell’uomo in contesa con la fantasia del colle, con le sue repentine perdite di livello o le avverse montate. Strada diventava ciò che non era edificato, e in strade si trasformavano i letti di ruscelli di ronda.

Fotografata dall’aereo questa maglia appare simile al viluppo di un convolvolo o ai capillari di una foglia vista attraverso il sole. Rappresenta indubbiamente il più antico lascito medievale ed il fomite della ineffabile caratterizzazione della Città, tale da incidere profondamente sulla sua urbanistica.

Pur essendo medievale, tuttavia, questo tessuto, uscito di sfilatura tra siepi e siepi edilizie per lo più miti, inosservabili, povere e pur tuttavia attente, non ha né marchio né attributo della viabilità del medioevo continentale, contrassegnata da viuzze schive, censurate e fuggitive sulle quali, per quanto siano a schiera, le case sembrano appiombarsi in decubito laterale o rigare processionalmente. Nell’organismo viario di Girgenti manca invece ogni devozione alla città, che non viene mai intesa come data e scontata, ma come formata in itinere, col procedere delle strade e l’assieparsi delle case, mutualmente incuriosita e in lento, reciproco trattenimento.

Certo un’analisi più approfondita ma da evitare in questa sede potrebbe individuare senza acribia alcune tra le più salienti tipologie viarie arabe: le strade principali o shari, i vicoli senza sbocco o aziqqa, le corti o ribah, le strade a passo obbligato, sbarrabili e controllabili, o darb: che agrigentinamente venivano denominate “passaturiddi”.

Schemi e nomenclatura vanno tuttavia individuati con grande giudizio, perché Girgenti fu città berbera e non puramente araba, ed i caratteri mediterranei, anche pregressi, hanno la meglio su quelli interni nel medio oriente; ed i berberi arabizzati avevano conservato molto del loro carattere inventivo e asistematico, com’erano portati a provvedere estemporaneamente secondo necessità e forti richiami atavici, piuttosto che a preventivarsi come operatori e progettisti.

Per questo non possiamo trovare a Girgenti quello che non ha avuto: una urbanistica classicamente araba, con moschee, piazze, bagni, luoghi pubblici, borghi residenziali, edifici o quartieri fortificati preposti alla custodia dei poteri, orientali e disposti secondo i canoni prestabiliti, com’è stato di Palermo. La citazione vale naturalmente ad escludere che sia stato così. Se nell’immaginario il richiamo della città della Conca d’oro può richiamare “pro tempore” certe atmosfere urbanistiche e descrittive da “mille e una notte”, Girgenti non può postulare qualcosa del genere né una ideazione che vada oltre l’entusiastica ma contenuta relazione di Ibn Idrisi che non va molto al di là di un’esaltazione di geografia economica.

La definizione già data di attendamento di case costruite in seguito ad un accorrere di genti capaci e in grado di lavorare e di risollevare la Città dall’emarginazione geografica e dalla depressione demografica ed economica, seppure col condimento dell’antico glorioso passato, ci sembra quindi perfettamente sostenibile.

Onde se noi pensiamo all’edilizia urbana di quella Girgenti, non possiamo considerarla fiorente per getto e sviluppo interno, ma di deboli strutture, senza la sfida del bello e dell’eterno, senza grandi agonismi d’arte e di eloquio architettonico; ed in sostanza di non più che pratica destinazione, senza la pretesa di sfidare i tempi né di glorificare le idee; e parca, forse apastellata e polverosa l’aspetto; ma con tutto ciò, vivace ed operosa.

Discorso a parte merita la questione delle mura urbiche, non essendosi ancora stabilito, né in forza di prove che mancano né sulla base di un ragionamento insuperabile, se la Città semitica ne abbia o non ne abbia avute: se cioè fu o non fu una città murata, forte e conchiusa.
Ancora una volta la sede rifiuta l’approfondimento, ma ci rifiutiamo di credere che i nuovi conquistatori rifondatori di Girgenti non abbiano utilizzato o non abbiano tenuto presenti nel presciegliere il sito e nello scorrere, con la vista i passi, il territorio, le mura naturali che fasciavano il colle, al punto di non utilizzarle in quanto tali, pur con qualche opera di adattamento, prolungamento e sutura. Il luogo dove venne rifondata e popolata la Città sembra chiaramente tenerne conto, e può essere una prova “a posteriori”.

Non è peraltro d’escludere che il borgo greco, munito di un tempio di cui si conservano i resti e di un secondo ipoteticamente dissoluto con la fabbrica della cattedrale, si sia lasciato configurare e difendere dalle stesse mura naturali, né che non possano essere state collegate e rinforzate con opere dell’uomo. Siamo anzi dell’avviso che proprio sul colle dove sarebbe sorta Girgenti ha avuto luogo il rafforzamento di Falaride in preparazione del suo fortunato colpo di stato.

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Non per caso tre porte delle mura medievali di Girgenti conservano nomi arabi; non per caso si trovano tutte e tre nella Terra Vecchia, e cioè nell’areale urbico primariamente arabo; non per caso le altre porte, aperte nella zona del posteriore sviluppo urbanistico ed edilizio, non ci consegnano alcun altro toponimo di lingua o di riferimento semitico.

Peraltro i tratti superstiti delle mura non presentano un uguale carattere di tecnica edificatoria, ed il tratterello a salire da porta di Mare verso porta Mazara, oggi confuso da altre fabbriche, da altri muri e racconci, al punto di non essere degnato di distinzione (così come i dubbi ma possibili brandelli rinvenibili nel luogo di tra l’ex porta Biberria e la demolita chiesa di Sant’Onofrio), hanno caratteri assai più antichi degli altri. Anche la malta utilizzata ha un aspetto diverso dal legante utilizzato altrove.

D’altronde non ci sarebbe stato il borgo o rabato se la Città non fosse stata ben circoscritta. Ed è invero l’esistenza del borgo a fornire l’argomento decisivo, perché questo nome non può in alcun modo indicare il nome proprio di un quartiere ma quello comune di un agglomerato espanso fuori porta, a minor o maggiore distanza delle mura e lungo una importante via esterna: che nel nostro caso, era quella del mare.

In via di massima gli arabi non ebbero a tutta prima l’esigenza di fortificare le loro città siciliane, dato che il Mediterraneo era un loro mare e il canale di Sicilia o mar d’Africa un loro fiume, sia per il possesso di oltre la metà delle coste che vi si affacciavano nonché per la loro assoluta superiorità navale e piratesca.

Agli emiri e ai maggiorenti bastava disporre di imprendibili fortilizi urbani, atti tanto alla difesa dall’esterno che al controllo dell’ordine interno. Pure, sin dalle prime razzie degli Altavilla, la necessità di proteggere i principali centri abitati dev’essere stata presa con improvvisa urgenza. La tettonica aveva munito di giacenti importanti argini naturali: era sufficiente perfezionarli. Ciò può essere avvenuto dopo la prima scorreria che mette a soqquadro la terra di Girgenti, emungendone notevoli ricchezze. E’ una prova delle future operazioni e dell’ancora lontana conquista, ma già i normanni si pongono come i nuovi arabi nel Nord.

Con i normanni l’esigenza di murare le città si porrà sin dalle loro prime stabili conquiste territoriali. Era infatti realisticamente supponibile che gli arabi potessero dall’esterno ricondursi in Sicilia e liberarla, col riappropriarsene, dalla liberazione normanna. E dunque ipotizzabile che le prime mura arabe siano state rinforzate dai normanni.

Non sembra che in questo periodo, e cioè subito dopo la sconfitta dei musulmani e per più di un secolo, ci sia stato in Città un gran fervore di opere edilizie, monumentali e stradali, se si prescinde dalla erezione della cattedrale fortificata. Essa tuttavia, nonostante la persistente difficoltà di lettura delle sue vicende costruttive, non sembra sia stata particolarmente vasta e commensurabile con quanto vediamo oggi.

Non sorse, in particolare, un castello, perché l’episcopio con la concatenata cattedrale ospitava il nuovo potere ed era, come si è detto, fortificato. Il castello arabo e d’ipotetica costruzione bizantina rimane senza un rifacimento d’epoca, forse come sede di guarnigione e di funzionari, assoggettato ad un regresso di fabbrica e di autorità, specie dopo l’erezione dello Steri e l’affermazione del potentato chiaramomtano.

L’assenza di murature normanne ci induce a ritenere che il cambio di guardia del potere non richiese altro che una redistribuzione dell’esistente e un riaccomodamento o un riequilibrio tra le parti, fondato tanto sulla politica missionaria del vescovo Gerlando che su un relativo imboscamento rurale di una parte della popolazione semitica che, perdendo la città, passava probabilmente a controllarne le campagne; e questo potè essere un modus vivendi.

In periodo svevo si nota un certo risveglio, com’è dimostrato dalla costruzione della magione prefogliana, sorta fortificata e in stile eccelso, secondo i notevoli resti che sopravanzano il monastero chiaramontano di Santo Spirito in cui venne inglobato. Ma è in periodo chiaramontano che la Città diventa, per così dire, tutta una fabbrica, sia per l’erezione di edifici nuovi – chiese, colossali monasteri, un ospitale – che dello Steri, e di palazzi ospizi dei diversi membri della potente famiglia agrigentina.

Ospizi erano le grandi magioni munite di locali di rappresentanza e di grandi foresterie, atti ad ingaggiar clienti, a trattenere ospiti, ad assolvere compiti di intrattenimento e di adescamento politico. A scorrere i tramandati testamenti di alcuni dei Chiaramonte non ci si può non chiedere dove e come mai tali costruzioni siano finite e scomparse.

Domanda in certo senso retorica, come tutte quelle poste dagli uomini o dai popoli quando si stupiscono di se stessi. Essa viene posta anche a Palermo in relazione ai tanti e grandi edifici arabi che dotavano quella città.

Ma da una conquista all’altra la produzione edilizia ed architettonica dei vinti viene quasi del tutto e improvvisamente fagocitata dai vincitori, specie quando tra questi quelli corrono solco religioso e la nuova autocrazia camuffa l’interesse in missione, quasi in permuta dei rischi delle pregresse paure, atteggiandosi a teocrazia del proprio universo geopolitico.

Per inciso, quando e dove gli è occorso gli arabi non sono stati di meno dei loro vincitori normanni. La distruzione costituisce in questi casi un pasto sacro, un atto apotropaico della storia, prima ancora che un fatto ricognitorio di azzeramento politico, e questo perché le architetture connesse all’edilizia dominano ogni altra rappresentatività artistica e culturale e vanno cassate il più che sia possibile.

Sembra che i semiti abbiano da sempre avuto, rispetto ad ogni altro popolo, una più universale, fatalistica e dolente convinzione dell’ineludibilità di questo fatto, vissuto come una gloria della sconfitta e quindi come presupposto di ogni nuovo tentativo di apoteosi successiva.

Cosicché Naghib Mhafuz ha potuto superare nel senso della dimora i significati dell’edificio, della costruzione e dell’opera architettonica, considerandola alla maniera di una “torre stabile nel tempo, nella quale trovano rifugio le colombe dei ricordi”, in una dimensione immersa nell’eterno passato. E quando queste colombe son finite, nella metafora siciliana, ghermite dal falcone normanno, il grande Ibn Hamdiss le canta libere nella nostalgia del ricordo, sapendole tuttavia non redimibili dall’accaduto e dall’eterno passato: cioè, forse, dall’eterno futuro.

Tutto ciò che non si trova dell’architettura araba di Palermo è certamente opera distruttiva dei normanni, nei primi anni e forse nei primi mesi della conquista. E tuttavia i normanni si rifecero arabi essi stessi, quando ne rivalutarono ben tosto e istituzioni di governo e forme di vita e modelli d’arte, formando un affascinante civiltà e ponendo le basi di un regno antesignano. La civiltà araba di Sicilia era così servita a riconquistare i normanni e ad introdursi, anche per questa via, in Europa. Il prezzo pasteggiato e pagato ha compreso la distruzione di quei monumenti, e il risarcimento è costituito da altre opere d’arte di fortissimo richiamo, dette, ad onore di vinti e vincitori, arabo-normanne.

Ciò che degli arabi è direttamente rimasto nei siciliani non ha richiesto né pontili né passaggi, ma un assorbimento reciprocamente tollerante durato due secoli, ed al quale è arriso il successo derivante dai frutti quotidiani di una utilità multietnica e multireligiosa. Per il loro pacifico benessere i siciliani di allora, ivi compresi gli arabi e gli ebrei di Sicilia, furono superiori alle loro lingue d’origine e alle loro religioni materne; ed in questo realizzarono la loro sicilianità.

Quando si parla di tolleranza si fà fatica a non frapporre tranelli ieratici e giuridici, ed altrettanto a non sentircene irretiti. Si dimentica che la tolleranza di allora fu un calcolo pacifico, maturato e normalizzato per via dei vantaggi che offriva e per l’assenza di controindicazioni. Per questo diventa un fatto di civiltà e quindi un fattore di vita, mentre n’era stato una condizione originaria ed implicita. Diciamo dunque che quella fu una tolleranza implicita e assolutamente non teologica.

Dagli arabi sono rimasti ai siciliani notevoli trasporti e parziali atteggiamenti; determinate capacità manuali ed artistiche; una certa febbrile economia dello spirito che ricorre alla flemma o al ribellismo per equilibrare la propria resistenza; una pazienza che inganna la rassegnazione e fomenta le attese; e sono naturalmente rimasti molti modi del sentire e dell’intendere, un antico patrimonio di tecniche materiali e di concezioni formali: ed un formidabile opportunismo verso la storia, spesso predatorio o d’incetta, altre volte attendente e trasognato.

Il lascito principale concerne il campo linguistico ed in particolare toponomastico, forse perché il linguaggio non consta di relazioni logiche ma di forme di vita che si depositano nella storia. Innanzi a tutto ciò abbiamo ereditato pochissimi, contati edifici prettamente arabi, e ad Agrigento nessuno. Ma la Sicilia araba, che per esser rimasta il giardino e colombaia di sogni, per gli isolani è rimasta realtà che non può fare a meno di ricorrere a se stessa anche quando vuole non ammettersi se non propriamente smentirsi.

Tuttavia l’interrogativo più interessante sulla carenza residuale di opere architettoniche ed edilizie medievali, del medioevo post arabo agrigentino, afferisce agli edifici che c’erano, che non ci sono più e che hanno dato lustro ed ospitalità ad una serie di casate e famiglie: oltre ai suddetti Chiaramonte, razza dinastica che ha un posto a sé, i Latronico, i Calia, i Doria, i Bonaparte ecc. ecc.

Dei Montaperto conosciamo il sito del loro splendido ospizio, trovato solo alla fine dell’800, senza che la città denotasse alcuna capacità di rimpianto, così come non ne aveva avuto di rimedio. Similmente conosciamo i siti dei palazzi De Marinis e Pujades, di cui rimangono le strutture.

Ma i conti non tornano lo stesso: mancano almeno, tra sedi nobiliari ed ospizi chiaramontani, una ventina di grandi costruzioni di cui s’ignora tutto. Sembra incredibile che la piccola Girgenti abbia potuto ospitare tanto potere e tanti interessi, e questa imprevedibilità rende credibile quello che non c’è, come se non ci fosse stato mai. Sotto questo punto di vista abbiamo una situazione perfettamente rovesciata rispetto a Palermo, dove la ricerca ha tenuto viva la memoria e questa ha atteso i frutti di quella e l’ha incoraggiata: ma resti copiosi, in parte perfettamente integri e godibili, in parte soltanto leggibili o individuabili, hanno fornito ad entrambe una notevole propulsione.

D’altra parte, la ricerca e le cure agrigentine sono centralizzate sulle emergenze di età classica; quelle palermitane, sulle emergenze medievali e moderne.

ineare una storia urbanistica della nostra Città, dovrebbe non soltanto attenersi ai criteri metodologici e alle poche vie d’uscita indicate, ma all’ingegnosità ed alla libertà di una ricerca aperta a 360 gradi.

Potrà così ipotizzarsi che uno dei grandi ospizi chiaramontani sia sorto non lungi della chiesa con convento di San Francesco d’Assisi, tra l’attuale chiesa, da una parte, e la dirittura della strada principale, odierna via Atenea, dall’altra; ed esattamente nell’attuale slargo del cortile Noto-Biondi accessibile da via Pirandello. Un pilastro con un bel capitello medievale ci parla ancora di una preesistenza architettonica ed edilizia di grande momento insediata nel luogo. La prima parte del toponimo viario (Biondi) ricorda la famiglia che acquistò dalla famiglia Sala il palazzo omonimo, in seguito parzialmente richiamato col nome degli ultimi proprietari: Costa.

La seconda parte del toponimo (Noto) ricorda il subentrare more uxorio dell’ultima proprietà, già appartenuta all’avvocato Michele Biondi, figlio dell’acquirente Antonio. Costui può essere ancora indicato alla pubblica disapprovazione in quanto non ricostruì il bel portale catalano del grande palazzo, per il resto qua e là ricostruito, rimodellato e barocchizzato con l’aggetto di balconata d’epoca, dopo lo smontaggio che ne era stato fatto a seguito dei lavori di livellamento della piazza.

Inadempienza tanto più grave se si pensa che il comune gli aveva corrisposto una somma relativa alla spesa che avrebbe dovuto sostenere, e lo aveva per di più agevolato immettendolo nella proprietà di alcuni bassi ottenuti grazie alla rifondazione della costruzione e all’abbassamento della sede stradale. Il livellamento ed il raddrizzamento della strada principale della Città favorì apertamente i proprietari degli edifici che vi si affacciavano oltre agli appaltatori delle opere, controllati dal potente Ignazio Genuardi.

Fu l’affare del secolo, antesignano dei fenomeni affaristici dell’abusivismo che, un secolo dopo, avrebbe rifavorito certi strati molto abbienti della borghesia elettorale e certe frange molto conducenti e ramificate della piccola borghesia e del sottoproletariato elettoralistico della Città. Almeno in questo c’è stata democrazia:

nell’allargamento delle basi di godimento dell’illegalità e nel recupero di più diffusi e numerosi ritorni di piccoli e grandi vantaggi e ristori. Nell’800 il beneplacito era invece andato al ristretto numero dei borghesi abbienti ed elettori, quando il gran numero dei cittadini senza diritto al voto non veniva né richiesto né fraternizzato da politici ed amministratori, ed era tagliato fuori da ogni trattativa di favoritismi, restando nella propria disappartenenza giocoforza candida, ingenua e socialmente sottomessa. Oggi, nell’andare indietro, si sono fatti notevoli passi in avanti.

E’ dunque perfettamente ipotizzabile che un ospizio chiaramontano, a metà strada tra Santo Spirito e San Francesco, sia sorto nel luogo, e che il complesso sia stato successivamente “catalanizzato” con l’apposizione di figurazioni di quel gotico arabizzante, rampante e fiorito, e l’elevazione di un dovizioso portale che ha fatto la fine, cent’anni prima, dei paramenti architettonici della chiesa di Santa Rosalia (i chierici del ‘900 hanno ben valso gli anticlericali dell’800).

La fantasia potrebbe portarci a dire che nel luogo sorse il nuovo ospizio di Isabella Chiaramonte, congiunto all’altro, il vecchio e certamente avito (forse sede di Giovanni il Vecchio) con una torre. Ma bisogna frenare la fantasia, anche se resta da vedere, con altra fantasia o altri mezzi, dove sia sorto il terzo palazzo di Isabella, che stava ubicato presso l’ospizio della sorella Beatrice: per ogni ipotesi prospettata si moltiplicano gli interrogativi.

Per limitarci ad Isabella sarebbe da vedere come potè sorgere l’ospedale di Santa Croce, sua altra grande impresa. Naturalmente incorriamo nell’ipotesi che venne costruito in uno con la Chiesa chiaramontana dello stesso titolo, che quindi passerebbe per essere stata la cappella della struttura, prima di avviarsi all’altro destino sanitario. Infine sul luogo, o proprio per la ricostruzione della vecchia struttura, sarebbe sorto il nuovo ospedale della città: quello dismesso di Porta di Ponte.

Come mute di cani, sensi e fantasia possono battere la città. Di fronte alla discesa Bianchini un vecchio alto muro scrostato mostra numerosissime bozze di pietre di tenero e bianco calcare, delle cave d’Ispica o di Modica, di quel calcare che nel medioevo si introduceva per creare archi, ghiere, colonnine, capitelli e portali chiaramontani.

Queste bozze potrebbero essere il segno della preesistenza in loco di un edificio di quell’epoca, crollato o demolito con riutilizzazione alla rinfusa o come da cava aperta del materiale smontato o precipitato. Qualcosa del genere, ma in campo maggiore, si osserva nel muro destro del vicolo teatro: ma qui si tratta delle bozze e dei prezzi delle sculture architettoniche provenienti dal crollato ed ivi stante palazzo dei Montaperto, ed utilizzate nell’erigere il nuovo insignificante edificio ottocentesco.

Snidano l’occhio alcune filiere della stessa tenera e candida pietra, utilizzate nella costruzione d’appoggio posteriore del campanile di San Domenico, e che sembrano addirittura al loro posto d’origine e facenti parte di una più antica costruzione: l’antico palazzo dei Tomasi o un più antico ospizio? Si sa che la costruzione del Teatro Regina Margherita, infelicemente ubicato, richiese la demolizione di una viuzza medievale che si era conservata perfettamente integra; e certamente l’edificazione del nuovo convento di San Domenico, oggi palazzo di città, richiese ben più seri sacrifici urbanistici e tagli dell’antico.

E che dire della casa del Trentatré che si ergeva, lugubre e fatiscente, nel bel mezzo dell’odierna piazza Pirandello? Era un ricovero per donne miserabili: un ospizio libero, quasi un antico centro sociale, ove le indigenti sole, le donne vecchie ed ammalate, si ritiravano a vivere, a dormire, a morire, uscendo ed entrando a loro libito, senza che vi fosse alcuna cura di custodia e di amministrazione. Negli antri formati dagli archivolti e dalle crociere la misera e raccoglitizza turba trascinava la vita, preparandosi i pasti nelle rudimentali fornacelle approntate presso i giacigli, simili a quelle realizzate dalla mano pubblica nel piano di Lena (detta anche, per questo, piano delle Fornacelle) per dar modo agli ospiti di Girgenti, venuti per affari e mercature, di cucinarsi risparmiando sulle spese di bettola; il luogo era tutto un albergo, sia nei vicini fondaci che all’addiaccio, dominato dai suffumigi, dai miasmi e dagli odori. La casa del trentatré era l’equivalente in chiave riposta e femminile.

Dopo il 1860 essa appartenne alla Provincia, che se ne disfece cedendo l’area al Comune, perché, demolendo le strutture fatiscenti e annerite, vi realizzasse una pubblica piazza. In cambio la Provincia otteneva l’area dell’ex convento degli agostiniani, ove ai primi del ‘900 venne realizzato l’edificio del museo civico.

È indubbio che il Trentatré era stata una grande struttura medievale di cui non conosciamo, se non per l’esistenza di archivolti e crociere, né le caratteristiche ne la dignità architettonica. Troviamo ovunque in Città, e particolarmente a sud della cattedrale, in via Raccomandata ed adiacenze, ad ovest e a mezzogiorno di piazza Pirandello, ed a valle di gran parte della via Atenea, magazzini perlopiù abbandonati ed impressionantemente ampi, dotati perlopiù di archi a sesto intero o acuto, che ci parlano di un passato sepolto, soverchiato ed assoggettato dagli inerpicamenti di un continuo e riadattante nuovo.

Anche la costruzione contigua al palazzo De Marines-Torricelli in piano Barone, già appartenuta alla famiglia Mirotta e divisa dal palazzo da un giardino scomparso ed edificato, sembra provvista nelle parti basse e parzialmente ipogeiche di possenti ed antiche strutture non giustificate dalla sopraelevazione settecentesca, che certamente non richiedeva quell’ampio e profondo basamento. Il relitto del giardino, a valle di via Saponara, presenta ancor oggi un sistema di grotte artificiali che si prolungano fin dentro la costruzione.

Piano Barone e zone adiacenti, comprese la via Orfane e Santa Sofia, costituiscono il centro del centro storico. Per quello che ho potuto ricostruire attraverso concordi testimonianze, anche il palazzo Contarini che vi si trovava, lasciava trasparire al di sotto del nuovo (che però, rispettabilmente, rimontava al secolo XVIII) un più vecchio possente corpo di fabbrica, specie all’interno dell’atrio con giardino di corte, ed al livello dei grandi magazzini. Questo palazzo è stato demolito ed occupato dalla costruzione novecentesca delle figlie di Sant’Anna.

Del palazzo Gamez, in piano Barone, rimangono le possenti strutture, l’antica rosta e qualche altro particolare: il paramento catalano del portale è stato distrutto nella seconda metà del 900; rimangono le fotografie.
Dell’altro palazzo Gamez, nel piano omonimo, denominato De Luca dal più recente proprietario, e rivestito di un serioso prospetto scolasticamente neogotico, si può dir questo: che a seguito dal crollo di parte degli intonaci sono venuti alla luce le strutture di alcune bifore nelle cui luci erano stati aperti gli ottocenteschi balconi a galleria.

Queste grandi e significative testimonianze architettoniche sono venute meno, a seguito del riempimento delle scrostature con malta di cemento che ha vieppiù ferito il prospetto. Nell’ala occidentale del palazzo è stata scoperta all’interno di un appartamento isolato una grande crocifissione parietale, affrescata con i modi di Cecco di Naro.

Nell’ala era certamente ubicata la cappella di un grande ospizio medievale. L’opera è stata demolita unitamente alla parete, per dar posto ad un moderno salone, ma l’impresa ha visto la contrapposizione, all’interno della coppia dei proprietari, tra il marito che aveva deciso di tagliar corto e la moglie che intendeva ristrutturare diversamente l’appartamento allo scopo di conservare l’opera. Ebbe la meglio l’uomo, ma la donna non fu da meno: e se ne separò. Nella ristretta cerchia familiare a conoscenza degli avvenimenti, sebbene fosse costituita da soggetti perfettamente alfabetizzati, diplomati e laureati, il giudizio prevalente ha arieggiato una tabuizzante superstizione: la separazione della coppia in conseguenza del peccato iconoclastico.

Cristo si sarebbe difeso da sé, senza tuttavia tutelare la propria antica ed artistica riproduzione, perché giudizio e pena hanno sempre luogo dopo i fatti che li cagionano. Non c’è, neanche divinamente, giustizia preventiva. Non ho mai sentito venire dal gruppo dei discettanti una sola parola di riprovazione o di dolore intellettuale per la perdita oggettiva di quell’importante emergenza storico-artistica; non ho sentito puntare il dito contro la brutalità, l’insensibilità e l’ignoranza del distruttore. Il fatto è stato perfettamente compreso e sigillato in una sfera teologico-superstiziosa. Ma Dio solo sa quanta paura di libertà, quanta convenzione sociale e meschino contentamento vi sia nel veder così le vicende e farsene una ragione.

Se dietro il suicidio ottocentesco di Lucchesi-Palli si vide l’ombra vindice di Sant’Anna, e se ai giorni nostri si è tentato di arrecare la figura di Padre Pio per distogliere o ammagare alcune esecuzioni legali, nel fatto della coppia di giovani sposi scongiunta per la distruzione di un documento d’arte medievale si è voluto vedere un diretto intervento cristologico. Or si dice che per abbonire la sposa furente a far pace la suocera abbia fatto ed eseguito il voto di una notabile offerta in denaro al crocifisso per antonomasia, quello della cattedrale, in occasione della festa del venerdì santo.

L’elenco dei resti e delle tracce dirette o indirette, più o meno visibili, della grande storia medievale di Girgenti, sarebbe assai lungo a farsi, e non privo qua e là di qualche entusiasmante e monumentale dubbio, come nel chiederci che cosa sia stato in verità lo slargo dietro il cosiddetto Arco di Calafato; o che cosa nascondono le strutture sulle quali s’addossa in via Garibaldi il portale del Gaggini, che sembra addossato a preesistenze ed a sua volta stretto da successivi interventi edilizi fatti senza pensiero.

Una tale ricognizione affonderebbe certamente nell’urbanistica medievale di Agrigento, in quella Pompei-Girgenti sulla quale si è elevata la Città moderna, dall’apparente morfologia e canzonatura non meno falsamente antica di quella, non senza dire che a trasformare in Pompei la Girgenti di prima è stata proprio la Girgenti di poi, in una continua eruzione destruente e ricostruttrice, fatta di velature e strappi, di schiacciamenti e sempre meno massimalistiche erezioni, bambagia su bambagia, pietra su pietra.

L’antico è stato molito senza sosta, infaticabilmente, senza fermarsi innanzi alle opere d’arte, che anzi poterono costituire un ostacolo corroborante sfrenatore, da discacciare prima degli altri meno inclini ai pericoli della riflessione. Più la città saliva nel tempo, più scendeva con il peso di macerie ricostruite nel proprio passato: a condizione di renderlo, arrampicandovisi, irriconoscibile.

Dietro ed a causa di questo vi sono state naturalmente cause di crisi sociali ed economiche, decrementi demografici, pesti e morie, ma innanzitutto vi sono state due o tre cause fondamentali e di caduta verticale: il crollo chiaramontano e diciamo così la fine di un tentativo di politica dalle caratteristiche gravitazionali, centromeridionali e interzative che voleva mediare gli opposti a proprio vantaggio (e in un quadro più ampio, a vantaggio autonomistico dell’isola); la cacciata degli ebrei, ai quali non venne data la possibilità numerosamente praticata altrove (ad esempio Trapani e Marsala) di preste ed opportunistiche conversioni, sottoponendoli ad alcuni patronati cristiani ed inserendoli in forti clientele dei potentati economici, di scampare dallo spoglio e dalla reiezione. Questo espediente, che chiameremo giovanneo, in quanto ampiamente praticato e con ben più alto spirito da Angelo Roncalli nella Bulgaria della seconda guerra mondiale, ha consentito altrove di conservare in parte le capacità produttive e intellettuali della popolazione semitica già sicilianizzata da un millennio.

A Girgenti la schiacciatura è stata totale, e fatta con uno spirito irresponsabilmente gaudioso: tant’è che l’indiscutibile sicurezza della prova linguistica dimostra l’assenza in Città delle tipiche ricognominazioni assunte nell’Isola da marrani. La terza grande causa (diciamo così, omogeneizzante) è costituita dal tipo di egemonismo feudale invalso nella terra di Girgenti con l’inanellamento fondiario-ecclesiastico. Dal punto di vista storico il fenomeno diventa un “unicum”, e la città defluisce in se stessa, si fa comoda ed ermetica, acquista temporalismo atemporale, e si darà agli studi cauti, con un popolo dedito alle dicerie scrutatrici e appaganti. E questo non è qualcosa di meno né di diverso di ciò che va accadendo alla sua urbanistica.

Gli episodi di maggiore ricostruzione sono, come abbiamo visto, settecenteschi, e per quanto oggi l’aspetto della Città non possa fare a meno di essi, su di alcuni non si può non avanzare riserva, ed in particolare sulla ricostruzione delle chiese di San Pietro e di San Francesco di Assisi. Quest’ultima viene riproposta in un ambiente architettonico chiaramontano che grondava certamente, stante i resti che se ne conservano, arte e vocabolario di bellezza. Il nuovo prodotto consta ora di un’aula smisuratamente lunga: né meditativa né numinosa.

Quanto alla chiesa di San Pietro, l’intento e l’onere di descriverne la bellezza può somigliare, com’è avvenuto anche di recente, allo sviluppo di un tema scolastico o ad un lavoro burocratico; atti cioè, in taluni ambienti, dovuti. Come colombe al laccio centinaia di pietre in bianco tenero calcare stanno a guardare dal lato meridionale della nuova Chiesa. Esse appartenevano all’antica, frammenti del suo paramento, delle sue figurazioni, di ghiere o rosoni di un’opera che tutto suppone sia stata bella e tradita dal suo nuovo domicilio: risolto, tutto sommato, in un portale inconcavito come bocca suggente su un frontone crinato di campanile, e che non ha né l’ascensione del prospetto della Chiesa di Santa Croce, né la villereccia e pubescente grazia di quello dell’Addolorata.

A me sembra che se vogliamo parlare d’opere d’arte architettonica del periodo dobbiamo andare alle chiese di San Domenico, di San Lorenzo e dell’Assunta: e per quanto riguarda l’età più vicina a noi, fermarci a quella bentivegnana di Sant’Alfonso. Altre chiese certamente vi sono, ma come vi sono case, e non solo qui ma in ogni centro; ma questo non ha nulla a che vedere con l’arte, che beninteso ha a che vedere con il gusto e la soggettività di ciascuno di noi, e che tuttavia non può diventare un compito d’ufficio né di obbligatoria esaustione inventariale.

Gli accenni all’urbanistica agrigentina e all’eventuale intento di farne una storia aperta e in questo senso sociologica sfuggono di senso se prescindiamo dal loro teatro.

Ancor oggi è possibile percorrere pedonalmente e recingere con la comprensione questo teatro urbico, impiegando non più di 30-40 minuti, saltando beninteso i luoghi del borgo esterno o Rabato. L’itinerario è quello che muovendo da via Empedocle, per il primo tratto di via Garibaldi, la salita di San Giacomo e la via Oblati, conduce alla cattedrale e da lì alla Biberria, Via delle Mura, la Madonna degli Angeli, la discesa della sua gradinata già detta di San Giovanni, fino ad incrociare la Porta di Ponte e a ritrovarsi nella via Empedocle. O viceversa.
In automobile, se non vi è traffico e con qualche variante, è possibile compiere altrettanto in pochi minuti. Se abbiamo cura di non lasciarci irretire dal senso di dilatazione spaziale indotto dalla stanchezza, possiamo ben convenire che la Città si stendeva in un fazzoletto.

La storia potè trovarvi spazio, ma non altrettanto può dirsi dell’urbanistica, se non con sua greve costipazione, con conati e rivolgimenti. Da un certo tempo in poi ciò che risorse, vi sorse sempre a carico di qualcosa che vi decadde: la ricerca di nuove superfici equivaleva allo spianamento di cubature precedenti. La generalità del fenomeno a Girgenti si fa assoluta e caratteristica, fino a diventare il “genius loci” della città e l’ideologia destruens-costruens forense dei suoi abitanti. Se riflettiamo sull’escursus si può convenire che, con l’analisi di questa ideologia, storicamente ci troviamo di fronte ad un processo edilizio urbanistico eristico, perché la ricerca del nuovo non tanto richiedeva il superamento o la falsificazione del vecchio, ma la distruzione dei suoi presupposti superficiari. Quindi: dobbiamo ampliare l’ospedale civile? Demoliamo la contigua Chiesa del Crocifisso. Si dava il caso che fosse esternamente la più bella chiesa di Girgenti. Venne demolita.

Si creò quindi una cultura del cremare e sterilizzare le testimonianze, dello spianare e del nascondere al di sopra di un discorso di valori, di ogni dubbio e di ogni sospensione; e quindi, col tempo e sul piano antropologico, essa divenne una cultura del nascondersi e camuffarsi: com’è avvenuto ad esempio del teatro, che si volle infinto dietro una chiesa, un ex monastero ed un palazzo del potere. Il nascondersi divenne un condizionamento psicologico.

La fagocitazione diventava a autofagocitazione, le pietre infisse servivano per innalzarle, i muri venivano divelti per innalzare altri muri, in un continuo scombussolamento che rendeva acronici e il nuovo e il vecchio. Nel moto pendolare tra giacimento e rifacimento, con tutte le possibili supposizioni e falsificazioni tra avvenuto e non avvenuto, tra dato e non dato, tra preesistito e inesistito, trovi la sorgente del vitalismo abusivistico, da intendere in questa sede e quanto alla sua formazione sul piano squisitamente antropologico e non giuridico. Noi riteniamo che alla base ed all’interno del processo per cui la cultura di Girgenti richiedeva un’alimentazione inculturale, stia proprio la strettoia urbanistica.

Nel suo crescere la città non si sviluppava ma si inviluppava; si faceva distruttivamente largo entro di sé e si ghermiva alle spalle. Forse i suoi pensieri andavano bene al di là dei propri comportamenti, ma erano questi a prevalere e forse a trasformarli in ubbie, in opinioni, in inutili esercitazioni di intelligenza.

Calata la tela sul periodo chiaramontano, dopo la creazione dei borghi esterni di San Pietro e di San Michele, dopo il loro raggiungimento ed inglobamento, dopo l’urbanizzazione “intra moenia” dell’intera Terra Nuova, interamente circuita dal prolungamento murale, la Città raggiunge la propria immagine, rinuncerà al secolo per confidare in un proprio millenarismo, e si consegnerà tale e quale all’800 maturo e unitario.

Monacazione urbanistica? No, castrazione. Gli abiti si pietrificano, il corpo non può crescere, elementi volano in gabbia. Altrove, le città erano da secoli uscite fuori porta, mentre Girgenti non usciva, né riusciva oltre se stessa, si rinnovava con le sue stesse pietre, si assediava intestinalmente. Sorse e si affermò un mestiere ridicolo e criminoso: quello del ladro di pietre, di colui cioè che deruba e divelle il povero materiale di costruzione. Non c’era cumulo di pietre smontate in attesa di essere rimontate che non venisse attaccato da questi poveri ladruncoli metropolitani, che spesso – in mancanza di pietre atterrate – provvedevano a dilapidare quelle agibili. Ma attraverso demolitori, ricostruttori e ladri di pietre la Città si digeriva e si procreava, ma l’edilizia diventava sempre di più onanistica. Fu una novità quando per la costruzione del teatro, si introdussero pietre nuove, perfettamente intagliate, svezzate da una cava appositamente aperta.

Ben presto i nuovi ricchi poterono permettersi altrettanto, scemava l’incesto litico.
Entro un fazzoletto d’areale viveva dunque la Città col suo tempo a cerchio e la massima osservazione che può farsi in sintesi è anche, analiticamente, la minima possibile: la sua urbanistica era stata per secoli vegetativa. All’unicum del regime feudale a partire di tra il basso medioevo e l’età moderna, corrispondeva un unicum urbanistico di autarchia spaziale, materica e superficiaria.

Tolto il Rabato, dunque, borgo perfettamente tabuizzato e socialmente espunto, Girgenti è rimasta perfettamente internata fino all’altro ieri storico e cioè agli anni del fascismo, quando venne dato l’ordine di demolizione murale e dello straripamento: quando era invece tempo, dopo tanti secoli, di non sgattaiolare dall’anacronismo ma di affrancarlo nei termini di una visione culturale nuova ed aperta alla scoperta turistica.

Girgenti divenuta Agrigento era Città tanto unica, murata, turrita e di così drammatica ed introiettata urbanistica, da dover essere conservata tale e quale: col rimedio, beninteso di una moderna espansione edilizia da realizzare altrove a mo’ di neapolis.
Accadeva l’esatto contrario, rinnovandosi l’anacronismo non più nella sua storicità, cioè nelle perdute possibilità del passato, ma in quel nuovissimo uscirne fuori con il travolgimento della cinta, con lo sghiacciare la secolare anchilosata postura, con lo sciamare e sciamannare dei cittadini. Il nuovo ed attuale anacronismo era questo: che il futuro della Città appariva come una villeggiatura, con gite edilizie fuori porta, puntate a destra e a manca, diradamenti ed escursioni. Gli anni del post-fascismo furono ancora peggiori, perché l’area urbica non venne considerata di meno delle zone esterne consegnate al sacco e al disordine.

Anzi era l’esterno a pretendere di rientrare, dopo la propria affermazione, all’interno: sorsero i tolli, le brutture si inurbavano per una reciprocità di giustificazione solidali. E dai tolli come sedi di comando abbiente e borghese, si sguinzagliarono, dal monte al piano, dal cielo al mare, le costruzioni vallive e pianeggiane da diporto.

A ben vedere, metaforicamente, si ebbe la stessa consecuzione della legge Merlin, tra il prima delle case chiuse e il dopo dei marciapiedi aperti; perché non è dubbio che lo sviluppo agrigentino di questi anni è stato da marciapiede.
Innanzi alla nuova Agrigento rispetto Girgenti ci si trova dunque come in un futuro senza passato rispetto ad un passato che non ha avuto né senno né futuro.

In verità stiamo scontando la cultura urbanistica bigotta di una città murata che non ha saputo affrontare il mondo e ha esternato dopo una secolare conventualizazione materialmente inibitiva una serie di vizi, di squilibri e di sfrenatezze. Più che mai possiamo andare con interesse meramente storico e urbanistico al progetto che, correndo l’anno 1850, ebbe gran divisamento, un iniziale finanziamento, ma nessuno seguito pratico, per la costruzione della nuova Girgenti tra il mare e il colle, nella piana di Villa Seta.

Era la condizione per ammodernare la città e contemporaneamente per preservarla: il progetto confidava sul fatto che la nuova Girgenti potesse dare una mano alla vecchia e l’altra alla Marina del molo dove forti erano le potenzialità mercantili e non meno forti i mugugnamenti verso un capoluogo inerte e imbalsamato.

Da qualche decennio, infatti, Girgenti era declassata per causa della propria inettitudine a semplice comune della provincia di Caltanissetta. La punizione era durata qualche mese, ma chi voleva la nuova Girgenti paventava un nuovo ripensamento governativo e la reitera del declassamento, e certamente pensava ad una forte cura della Città stessa, pur ponendosi con cautela il problema della sua integrità monumentale, del suo stanchissimo e vetusto aspetto, della sua invalicabile cinta murale.

Ci troviamo di fronte ad un progetto urbanistico che, se realizzato, avrebbe potuto evitare alla città di abusare di se stessa, assicurandone uno sviluppo bipolare e compensato tra tradizione e dinamismo, cultura e sviluppo commerciale. Peraltro sarebbe stata evitata la secessione empedoclina, di cui si avevano alcuni avvisi.

Il progetto scendeva dall’alto, era infatti voluto dall’Intendenza borbonica e stava alla città consentirlo ed animarlo. La reazione fu ancora una volta murata e disinteressante, sin da essere attraversata dalla noiosa eleganza del silenzio. In verità gli abitanti volevano il teatro, destinato a sorgere qualche decennio appresso, e per il teatro erano disposti a rinunciare a qualsiasi altra prospettiva. In altri termini, volevano divertirsi ed assistere; il progetto della città nuova prometteva invece impegno, fatica e lavoro: cose sulle quali si può concordare, se vengono rappresentati a teatro e se chi dovrebbe approntarle e sostenerle si limita a fare da pubblico.
Del progetto dunque non rimane che la sua storia, che è la facoltà di non fare rimanere sicuro quel trascorso cui appartiene, rendendolo anzi accessibile a quegli interrogativi che il presente, per interposto passato, volge a se stesso. Onde in fondo il tentativo di delineare una storia urbanistica di Girgenti-Agrigento non sarebbe altro che, in metafora, un tentativo di spiegazione.
(Questo articolo si trova nel numero di settembre 2004 della rivista Fuorivista)

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