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Agrigento anni Sessanta: straordinarie donne camminano sulla spiaggia

17 Ottobre 2014 //  by Elio Di Bella

Agrigento luglio 1960

Se il nominalismo ha un qualche diritto, dobbiamo rimpiangere che Agrigento non si chiami più Girgenti; molti anziani, difatti, rimpiangono ciò. Non si tratta di rinnegare la Grecia e un passato illustre. Direi che sarebbe il caso di distinguere: i templi, la valle che dall’acropoli scende al mare, l’infiammata zona costiera (così empedoclea) sopportano, esigono di essere denominati Agrigento, o addirittura Akràgas, suono, come nessun altro, igneo. Alla città vera e propria, che ha un’inquietudine, una vitalità levantine, si addice Girgenti, Gergent come vollero gli Arabi. Questo nome, Girgenti meglio di Gergent, suggerisce qualcosa di sulfureo e di spiritato. Anche Girgenti arde, alla sua maniera, ma il fuoco di Akràgas è un altro fuoco: è impossibile che ne traggano esca gli uomini d’oggi, che ne divampi la nostra cautissima vita.

Nessun « bagnante » s’illuderà di frequentare la spiaggia di San Leone o quella di Porto Empedocle con lo stato d’animo, la serena ottusità d’un bagnante a Viareggio. Il sole di Agrigento è come una torrida, gialla ruota in un cielo nero per esuberanza d’azzurro. Sono gialle le sponde. Il mare, per lungo tratto, è giallo, finché, molto lontano, in una striscia non raggiungibile, trascolora in turche se abbagliante. Non ci sono arbusti, a ridosso della spiaggia; il lido non è fatto di rena. Biancane di creta, di caolino, di gesso — come groppe di pachiderma — avvallano al mare, da picchi sconsolati: pianeggiano sul la riva, senza frantumarsi e dar luogo a grani di silice; s’immergono, s’inabissano sepolte dal flutto. Sulla bàttima, dove gioca una risacca infida, l’argilla è soda ed elastica. La invadono alghe celestine, la frammentano scogli. Vi corrono, malignamente, piccoli granchi screziati.

miss san leone

E’ curioso il modo col quale gli agrigentini stanno sulle loro spiagge, delle cui attrattive son fieri. Non si sdraiano al sole, ovviamente, e di rado si bagnano. Piuttosto, quasi a imitazione dei granchi, corrono; la compattezza dell’argilla consente un passo veloce. Chi dispone di una bicicletta, di una motocicletta, di un’automobile la spinge senza timore, vola sulla bàttima come lungo una pista, sollevando spruzzi, aprendo mulinelli di schiuma. Non esiste nulla, per un bagnante tradizionalista, di meno distensivo. Ritengo che nessuna legge locale vieti queste gimkane: una delle automobili che correvano sul lido di Porto Empedocle, stamattina, aveva la targa dei Carabinieri. Ad un certo punto la macchina s’è fermata, e quattro giovani carabinieri ne sono discesi. Hanno dato inizio a un trastullo balneare di strana semplicità: si sono disposti in circolo, lanciandosi l’un l’altro una grossa pietra di pomice, come una palla. Erano molto giovani, dicevo; stavano a torso nudo, con i loro calzoni dalle bande rosse. Non ridevano, ma sembravano intenti, preda di una noia gioiosa.

Non ho visto che poche ragazze in costume da bagno sulle spiagge agrigentine; mi chiedo perché i compilatori delle cronache di questa città, quando inviano le loro corrispondenze ai giornali di Palermo e Catania, alludano con malizia agli « esibizionismi » di San Leone. Parrebbe, al contrario, che l’assenza di esibizionismo sia completa e, in certo modo, sofferta, cioè stimolante. Mi riferisco a un esempio, vigorosissimo, di pittura popolaresca. Sulla prua di una barca, arenata presso lo stabilimento balneare di Porto Empedocle, ho ammirato, dipinta, una donna in bikini, nell’atto di tuffarsi. Di solito, non c’è nulla di più melenso: ma questa donna non aveva nulla che l’apparentasse alle decalcomanie americane. Era torva, possente, corvina di capelli, grigia di carni, un grigio più caldo d’ogni rosa banale. Il suo perizoma era scuro, d’una foggia succinta ma severa, arcaico come quello delle fanciulle nei mosaici di Piazza Armerina. Fernand Léger ha tentato invano, in molte forme, di giungere a una così elementare veemenza pittorica.

Tale veemenza può nascere solo dalla purezza e dal desiderio, cose che difficilmente coesistono. Ma quali straordinarie donne camminano sulla spiaggia di Porto Empedocle! Una ragazza contadina era vestita in arancione, aveva un viso fermo e solare. Ha attraversato un fiumicello senza curarsi di rialzare la gonna; non era graziosa né agile: era soltanto bella, d’una chiusa bellezza. Mi ha ricordato le dee del quinto secolo, una dea di terra cotta, corporea, con quel suo passo duro.

A noi, che veniamo di lontano, resta la contemplazione dei templi, quale mèta agrigentina. So bene che l’azione del contemplare implica una condanna: non conosciamo altre vie, adempiamo a una funzione banale: i turisti contemplano, scioccamente contemplano. Dobbiamo appagarci di trascurabili premi. Ecco il mio premio: sono disceso al mare prima di salire ai templi, e ora, accostandomi a ciascun rudere, a ciascuna colonna, mi accorgo che questi templi, anch’essi, sono venuti dal mare. L’arenaria in cui sono costruiti non ha solo il colore della sabbia: è un impasto friabile, fittamente composto di conchiglie. Se scalfisco la pietra, gusci di conchiglia mi si sbriciolano nel cavo della mano, rossastri. Penso a come sia precaria la storia della terra, la vita. Eppure questo tempio detto della Concordia è intatto, il più intatto dei monumenti greci: sembra vivere di linfa, o di sole, come una foresta.

Contemplare, meditare: rassegnamoci. Tutto questo non risolverà nulla, ma è l’ora del tramonto, implacabile, regale sulle rovine. Per la traccia delle catacombe, simile a un fratturo di pietra devastato dagli incendi, mi son calato giù, verso il fondo della valle, ho sostato presso i Giganti abbattuti del tempio di Zeus: l’antica Akràgas custodiva misteri, attingendoli ai terrori egizi. I ranuncoli e le malve, adesso, fioriscono sui làstrici. Nessun altro verde, nessun’altra corolla resiste all’estate; una salamandra terrestre, lenta e oscura come salita dagli Inferi, si è posata su un capitello divelto. I nostri sguardi, nel crepuscolo, cercano la luce del mare, al di là della pianura deserta. Due vecchie signorine di Lilla, vestite di bianco e di nero, si sono unite a me: siamo soli, gli ultimi abitanti di un mondo. Rimaniamo muti, finché, dinanzi alle colonne di Castore e Polluce che serbano un biancore di stucchi, una delle zittelle ritrova petulanza: « E’ spaventoso, quando si considera che il marmo di questi templi era oppresso dagli stucchi. Gli stucchi policromi, quale orrore! Quali dubbi, ahimè, sul genio dei Greci! ».

Non rispondo. Ho sempre amato, in realtà, il pensiero che i templi greci fossero coperti di stucchi: lo stucco fatuo e gentile proteggeva un’anima di marmo; c’era dunque un’anima, e questa dissimulazione variegata dell’anima era degna della parsimonia o dell’ambiguità dei Greci, come un accenno di sorriso. Mi piace che i templi apparissero policromi, con i colori degli uccelli di Agrigento, gli ortolani e le cinciallegre, che hanno piume azzurre, gialline, rosate. Ora i templi sono bui; ci sentiamo pervasi dall’ombra. Ha cantato Empedocle di Agrigento: « O amici, abitatori della grande città che al biondo Acragante declina! — Io, al vostro cospetto, non più mortale ma nume divino — m’aggiro, fra tutti, onorato come ne son degno, — d’infule recinto e di fiorenti serti: — dei quali quando giungo adorno nelle floride città, — Mi venerano uomini e donne e mi seguono infiniti, — chiedendo bramosi la riposta via che guida a salute… ».
Ma ora ci sentiamo pervasi dall’ombra. Contempliamo, meditiamo rovine; il nostro Empedocle è l’Empedocle di Hòlderlin, un titano tragico che ha violato i segreti del cosmo. Temiamo la notte, abbiamo freddo e paura. Né le agili membra del sole, né la forza villosa della terra; i talismani evocati da Empedocle, possono scaldarci o guarirci. Quali beni abbiamo perduto.

di Carlo Laurenzi pubblicato sul Giornale di Sicilia del 30 luglio 1960

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento racconta

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