Agrigento luglio 1960
Se il nominalismo ha un qualche diritto, dobbiamo rimpiangere che Agrigento non si chiami più Girgenti; molti anziani, difatti, rimpiangono ciò. Non si tratta di rinnegare la Grecia e un passato illustre. Direi che sarebbe il caso di distinguere: i templi, la valle che dall’acropoli scende al mare, l’infiammata zona costiera (così empedoclea) sopportano, esigono di essere denominati Agrigento, o addirittura Akràgas, suono, come nessun altro, igneo. Alla città vera e propria, che ha un’inquietudine, una vitalità levantine, si addice Girgenti, Gergent come vollero gli Arabi. Questo nome, Girgenti meglio di Gergent, suggerisce qualcosa di sulfureo e di spiritato. Anche Girgenti arde, alla sua maniera, ma il fuoco di Akràgas è un altro fuoco: è impossibile che ne traggano esca gli uomini d’oggi, che ne divampi la nostra cautissima vita.
Nessun « bagnante » s’illuderà di frequentare la spiaggia di San Leone o quella di Porto Empedocle con lo stato d’animo, la serena ottusità d’un bagnante a Viareggio. Il sole di Agrigento è come una torrida, gialla ruota in un cielo nero per esuberanza d’azzurro. Sono gialle le sponde. Il mare, per lungo tratto, è giallo, finché, molto lontano, in una striscia non raggiungibile, trascolora in turche se abbagliante. Non ci sono arbusti, a ridosso della spiaggia; il lido non è fatto di rena. Biancane di creta, di caolino, di gesso — come groppe di pachiderma — avvallano al mare, da picchi sconsolati: pianeggiano sul la riva, senza frantumarsi e dar luogo a grani di silice; s’immergono, s’inabissano sepolte dal flutto. Sulla bàttima, dove gioca una risacca infida, l’argilla è soda ed elastica. La invadono alghe celestine, la frammentano scogli. Vi corrono, malignamente, piccoli granchi screziati.
