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agrigento il tempio di giunone in una stampa del settecento

Agrigento alla fine del Settecento: dal viaggio in Sicilia di Gonzales De Nervo

20 Agosto 2022 //  by Elio Di Bella

la natura, i buoni piatti, le rovine dell’antica città: il viaggiatore rimane incantato dalle bellezze di Agrigento

Girgenti, il 22 a sera.

Da Sciacca a qui, fu giornata faticosa di viaggio. Prima della città incontrammo i bagni. Sgorga da una rupe una sorgente calda, la quale esala un forte odore di zolfo; al gusto l’acqua è molto salata, però non sa di putrido. Si perde forse tosto, il vapore del zolfo al contatto dell’aria? Più in alto sgorga un altra fontana d’acqua fresca, senz’odore, e più in alto ancora scorgemmo un convento, dove stanno i bagni sudorifici, e di là sorge un alta colonna di fumo nella limpida atmosfera.

Sulla spiaggia del mare non si scorgono qui fuorchè sassi di natura calcare; di quarz, e di pietre cornee non si vedono che frammenti. Osservai che i piccoli fiumi parimenti di Calta Bellotta, e di Maccasoli, non trasportano che sassi di natura calcare, ed il Platani marmo giallo e pietre focaie, le quali sempre si rinvengono nelle roccie di natura calcare. Fissarono poi la mia attenzione alcuni piccoli pezzi di lava; se non che nulla avendo osservato in questi d’intorni, che possa fare supporre la presenza di antichi vulcani, riterrei dovere essere quelli frantumi di pietre da molino, o di sassi portati da lontano, ed impiegati in costruzioni. Nelle vicinanze di Montallegro non si scorge che gesso, dovunque gesso compatto, pietre specolari ossia scagliose e le roccie poi tutte di natura calcare. Che stupende roccie sono poi quelle di Calta Bellotta!

Girgenti, martedì 24 aprile 1787.

Non credo avere visto finora nella mia vita così stupendo levar del sole in primavera, come quello d’oggi. Il moderno Girgenti sorge in alto, sull’are dell’antica rocca, vasta abbastanza per comprendere gli abitanti, della città attuale. Dalle nostre finestre, godevamo la vista dei vasti terreni che digradano dolcemente, sovra i quali si stendeva la città antica, ora rivestiti tutti di vigne e di orti, fra la cui verzura non si scorge la minima rovina, o reliquia, la quale possa dare a luogo ad argomentare, dovesse un dì, ivi stare una città popolosa.

Soltanto verso mezzodì, si scorge sorgere all’estremità di questo piano inclinato, tutto verde e smaltato di fiori, il tempio della Concordia, ed a levante i pochi ruderi, del tempio di Giunone; l’occhio poi non può dall’alto abbracciare le rovine di altri edifici sacri, che si estendono in diretta linea di quelli, ma può spaziare ancora sulla pianura, la quale si stende a mezz’ora di distanza, verso il mare. Non ci fu dato poterci aggirare oggi fra mezzo a tutto quel mare di verzura, a quei fiori, a quei vigneti, imperocchè, stava a cuore del nostro cicerone; un buon sacerdote piccino, piccino; il farci vedere anzitutto, le cose rimarchevoli della città.

Ci fece osservare prima di ogni altra cosa la strada principale, ben fabbricata; quindi ci fece salire sul punto più elevato dell’abitato, di dove si domina stupendamente la vista di tutti i dintorni, e per ultimo ci portò alla cattedrale. Si osserva in questa un antico sarcofago, benissimo conservato, ora ridotto ad uso di altare. Vi si vede rappresentato Ippolito, trattenuto nel momento di partire per la caccia con i suoi compagni e con i cavalli, dalla nutrice di Fedra, la quale gli porge una tavoletta.

Scopo dell’artista era quello di rappresentare bei giovani, e pertanto ha formato, quasi a contrapposto, la vecchia piccina, poco meno che nana, e difettosa. Lo stile della  composizione, mi parve sublime, ed ho visto poche antichità, in istato così perfetto di conservazione. Crederei che quel marmo si possa ritenere opera pregevolissima dell’arte greca antica.

Un vaso poi di bastante grandezza, pregevolissimo questo pure e benissimo conservato, ci riportò alla considerazione di epoca più remota, e si osservano poi quà e là nelle costruzioni della chiesa nuova, avanzi di architettura antica.

Non essendovi in questa città locanda di sorta, ci fu forza accettare l’ospitalità di una buona famiglia, la quale ci ha favorito un ampia alcova, in una camera vastissima. Una tenda verde separa noi, ed i nostri bagagli, dai membri della famiglia, i quali stanno fabbricando maccheroni nella stanza vicina, e di quelli più fini, bianchissimi, piccolissimi, i quali si vendono a più caro prezzo, e che dopo che sono usciti dalla macchina sottilissimi, vengono intrecciati dalle dita abili di giovani ragazze, in guisa da assumere l’aspetto grazioso, di matasse attortigliate.

Ci accostammo a quelle giovani, facendoci spiegare i metodi del loro lavoro, e ci dissero che quelle paste si fabbricano colla migliore qualità di frumento, di maggiore peso, denominata grano forte. Il pregio deriva però più dall’opera delle mani, che dalle macchine, e dalla forma del prodotto. Ci servirono un piatto stupendo di maccheroni, lamentando di non averne in pronto di una certa qualità la più fina, la quale non si fabbrica altrove che in Girgenti, ed anzi nella loro casa soltanto; dicendo che quelli, per bianchezza e per squisitezza di gusto, non hanno gli uguali.

Anche alla sera seppe il nostro cicerone porre freno all’impazienza che ci spingeva ad uscire dalla città, portandoci ancora una volta al punto più levato di questa, e facendoci osservare di là l’ubicazione di tutte le cose meravigliose, che domani, ci sarà dato potere contemplare in vicinanza.

Girgenti, mercoledì 25 aprile 1787.

Uscimmo di città al levare del sole, incontrando vista pittorica, ad ogni passo che movevamo. Conscio di far bene, la nostra guida piccina, ci portò a traverso a quella splendida vegetazione, dove ad ogni tratto incontravamo località, le quali avrebbero potuto essere il teatro di un idillio.

Contribuiva a ciò la natura del terreno ondulato, per cui le terre potevano tanto più presto ricoprire e nascondere le rovine, in quanto che quegli antichi edifici, erano costrutti per lo più, di una pietra porosa e leggiera. Pervenimmo per quella via all’estremità, verso levante, della città, dove i ruderi del tempio di Giunone vanno deperendo ogni anno maggiormente, in quanto che i materiali porosi e leggieri, vengono consumati dall’azione dell’aria e delle intemperie. La giornata d’oggi era destinata ad una semplice escursione di curiosità; però Kniep, ha fissata di già il punto, dove domattina verrà stabilirsi per disegnare.

Il tempio sorge attualmente sopra una roccia corrosa dalle intemperie; colà si stendevano in direzione di levante le mura della città, circondando un area di terreni calcari, la quale in origine dovette la sua formazione fra gli scogli che la circondano, all’azione del mare; ed ora discende fino alla spiaggia di questo. Le mura, a tergo delle quali si stendeva la serie dei templi, erano scavate in parte nelle rupi, in parte formate con i materiali tolti da queste. Non havvi quindi dubbio, che Girgenti collocato per tal guisa in pendenza, dovesse dal basso, dal mare, porgere una vista stupenda.

Il tempio della Concordia dura da tanti e tanti secoli; lo stile svelto e grazioso della sua architettura corrisponde alle idee che ci formiamo del bello, del piacevole; paragonato ai templi di Pesto farebbe la figura delle statue delle divinità, poste a fianco d’imagini colossali di giganti.

Non voglio addurre lagnanza che si sia proceduto senza gusto  nel lodevole intento di provvedere alla conservazione di quel monumento, otturandone con gesso bianchissimo le fessure, in quantochè si provvidde per tal guisa ad evitare una rovina totale; però sarebbe pure stato facile il dare a quel gesso la tinta antica, dei materiali che costituiscono il monumento.

Quando si considera poi la natura poco consistente delle pietre impiegate nella formazione delle colonne e delle mura, si dura per vero dire fatica a comprendere, come abbiano potuto quelle costruzioni matenersi per tanta serie di anni. Se non che, l’architetto riponendo speranza nella posterità, aveva prese le sue precauzioni; difatti si scorgono tuttora nelle colonne le tracce di uno stucco finissimo, il quale mentre doveva renderle più piacevoli alla vista, non poteva pure a meno, di contribuire a guarentirne la conservazione.

La nostra visita successiva fu dedicata alle rovine del tempio di Giove. Giacciono queste sparse a terra quà e là quasi le ossa di un gigante,fra mezzo a varie piccole possessioni, separate le une dalle altre da siepi, dove si scorgono piante ed arbusti. Tutte quelle rovine non hanno più forma, all’infuori di triglifo colossale, e del tronco di una mezza colonna, proporzionata alla grandezza di quello.

Allargai le braccia per misurarlo, ma non la potei abbracciare, e vi potrete formare una idea dell’ampiezza e della profondità delle scanellature, quando vi dirò che appoggiandomivi colle spalle, vi stavo dentro quasi ricoverato in una nicchia. Ventidue uomini all’incirca, collocati l’uno contro l’altro, circonderebbero la periferia di quella colonna. Partimmo da quel campo di ruderi, col rincresci mento di avere visto che nulla vi era a fare colà, per un disegnatore.

Le rovine per contro del tempio di Ercole, permettono formarsi tuttora un idea del suo aspetto. Sussistono tuttora i due ordini di colonne, in direzione da tramontana a mezzogiorno, le quali fiancheggiano da ambi i lati il tempio, e scorgesi fra mezzo a quelle un cumolo di terre, prodotto secondo ogni probabilità della rovina delle parti  interne dell’edificio. Le colonne, in cima alle quali correva un architrave, sono rovinate tutte assieme, atterate probabilmente da un terremoto, e giacciono, ridotte in frantumi, in ordine regolare sul suolo, e Kniep, preso dal desiderio di disegnare con precisione quello strano fenomeno, stà ora aguzzando la punta delle sue matite.

Il tempio di Esculapio murato per buona parte in una casa rurale, ed ombreggiato di stupende piante di carrube, porge una vista graziosissima.

Scendemmo poscia al sepolcro di Ferone, lieti di vedere quel monumento riprodotto le tante volte col disegno ed imitato, dalla cui località si abbracciano colla vista verso levante e ponente, l’area su cui sorgeva la città antica, le reliquie della cerchia ora interrotta delle mura di quella, le rovine dei templi. L’abile pennello di Hackert tolse di qui il soggetto di un bel quadro, e Kniep pure intende riportarne almeno uno schizzo.

Girgenti, giovedì 26 aprile 1787.

Allorquando mi svegliai stamane, Kniep era già pronto ad intraprendere la sua escursione pittorica, con un ragazzo il quale doveva indicargli la strada, e portare le sue carte. Io mi godetti questa mattina la stupenda vista stando alla finestra in compagnia del mio amico segreto, tranquillissimo, ma non però muto. Per una specie di pudore non ho nominato finora il Mentore al quale io ricorro di quando, in quando, per appoggio; si è questi l’ottimo Riedesel, di cui porto il piccolo volume sul petto quasi un breviario, od un talismano. Ho sempre ricorso volontieri a coloro, i quali sanno quanto io ignoro; e così fo ora.

Ma difettano agio, tranquillità, sicurezza di scopo, mezzi  semplici, adatti, studio, cognizioni; non conosco abbastanza le opere di Winckelmann, dalle quali si potrebbe trarre maggiore profitto che da tutto. Ed intanto io non mi posso astenere dall’esaminare alla sfuggita, dal prendere cognizione, superficiale almeno, di quanto non avevo avuto occasione di studiare fin qui.

Possa ora quell’uomo eccellente, in mezzo al tumulto del gran mondo, sapere e conoscere che i suoi meriti sono apprezzati da un suo allievo riconoscente, il quale si trova solitario in un luogo solitario che aveva esercitato questo pure tanto fascino sopra di lui, il quale aveva nudrito per un istante desiderio, di potere trascorrere qui il resto de’ suoi giorni, dimenticato da’ suoi, e dimentico di quelli.

Oggi poi sono tornato, in compagnia sempre del mio piccolo prete, nelle località visitate ieri, contemplando sotto diversi aspetti le cose viste, e facendo di quando in quando qualche visita al mio compagno, immerso ne’ suoi disegni.

Il mio cicerone chiamò la mia attenzione sopra un bel particolare della città, antica e possente. Negli scogli e nelle costruzioni, le quali formavano la cerchia delle mura a difesa di Agrigento, si scorgono tombe, destinate probabilmente a sito di riposo dei cittadini buoni e probi. Dove avrebbero potuto quelli trovare tomba più bella, più adatta a perpetuare la loro gloria, a farla servire di esempio ai posteri!

Nell’ampio spazio che si stende fra le mura ed il mare, si scorgono tuttora le reliquie di un tempio antico, ridotto ora a cappella per il culto cristiano, ed ivi pure si scorgono colonne a metà incassate nelle mura, costrutte con massi regolari, e con molta precisione, in guisa da produrre bellissimo aspetto. Direi che quella costruzione appartenga all’epoca, nella quale lo stile dorico avesse raggiunta la sua perfezione.

Osservai colà alcuni piccoli ruderi, ma con ben maggiore attenzione il modo col quale usano qui attualmente conservare i cereali, sotto terra, in ampi magazzeni a volta.

Il mio buon prete mi narrò molti particolari delle condizioni attuali, civili e religiose, della sua patria, e da tutto quanto potei ricavarne, non si trova questa in fiore. Il discorso era propriamente appropriato alle continue rovine fra le quali ci aggiravamo.

Gli strati delle rocce calcari sono tutti inclinati verso il mare, ed è bello scorgere in quelle che trovansi in decomposizione, alla base, gli strati superiori che sporgono in avanti, formando quasi la gronda di un tetto. Qui si odiano i Francesi, ai quali si muove rimprovero di avere posti i Cristiani in balia degl’infedeli, per la pace da essi conchiusa colla Barberia.

Si arrivava qui dalla marina per mezzo di una porta scavata nello scoglio, ed i tratti di mura che tuttora sussistono si scorgono fondati addirittura sullo scoglio. Il nostro cicerone ha nome D. Michele Vella, antiquario, ed abita presso maestro Gerio, vicino a S. Maria.

Nel piantare le fave qui tengono il metodo seguente: praticano alla voluta distanza buchi nella terra, vi cacciano un pugno di concime, aspettano che piova, ed allora sotterrano la fava. Bruciano poi gli steli disseccati delle fave, e si valgono delle ceneri per il bucato. Non fanno punto uso del sapone. Bruciano parimenti la corteccia esteriore dei mandorli, e si valgono di quella cenere, a vece di soda. Lavano dapprima i panni nell’acqua, quindi li sciacquano in quella lisciva.

La loro rotazione agraria è la seguente. Fave, frumento, tumenia, ed il quarto anno lasciano riposare il campo, mandandovi il bestiame a pascolo. Il tumenia, il cui nome vuolsi derivato da bimenia, è un dono prezioso di Cerere; una specie di grano estivo, il quale matura in tre mesi. Lo seminano in principio di gennaio, e nel giugno è sempre maturo. Non richiede molt’acqua, ma ha bensì d’uopo di molto caldo. Da principio ha foglia sottilissima, cresce parallellamente al frumento, ed in ultimo è molto forte. Il frumento poi, lo seminano in ottobre o novembre, e matura in giugno. L’orzo seminato nel novembre, è parimenti maturo nel giugno, e sulle sponde del mare, vari giorni prima che nei monti

Il lino è già maturo, e accanto ha spiegate le sue foglie stupende. La calsola fructicosa cresce dovunque in abbondanza. Sulle colline incolte cresce spontaneamente molta esparsetta. Se ne dà la raccolta in affitto, e la si porta per buona parte in città. Vendono parimenti, ridotta in fasci, l’avena che tolgono dai campi, nel ripulire il grano.

Suddividono con solchi in molte aiuole i terreni dove intendono piantare cavoli,per agevolare in questi il corso, e lo scolo alle acque.

Le piante di fichi hanno già tutte le loro foglie, e si cominciano a scorgere i frutti. Maturano questi verso il S. Giovanni, e dopo la pianta produce un secondo raccolto. Prosperano molto i mandorli, ed una pianta vigorosa poi di carruba, porta una quantità propriamente sorprendente di frutta. Le viti destinate a produrre uve per mangiare, e non per fare vino, sono tenute a pergolati, sostenuti da alti pilastri. Seminano nel marzo i poponi, i quali maturano nel giugno. E nelle rovine del tempio di Giove crescono stupendamente, senza traccia di sorta di umidità.

Ho visto il nostro vetturino il quale mangiava carciofi crudi, e parimenti rape crude con grande appetito; vuolsi però dire che qui sono molto più teneri, e di gusto molto più squisito che presso noi, e quando si passeggia per i campi, i contadini vi lasciano mangiare favi tenere, a cagion di esempio, quanto si vuole.

Mentre io stavo osservando pietre nere, molto pesanti le quali avevano tutta l’apparenza di lava, il mio antiquario mi disse che provenivano difatti dall’Etna, e che se ne trovavano molte sul porto, o per meglio dire al punto di approdo.

Gli uccelli, ad eccezione delle quaglie, non abbondano molto in queste contrade. Gli uccelli di passaggio sono gli usignuoli, le lodole, le rondini. Havvi poi una specie di piccoli uccelli neri, detti rinnine, i quali provengono dal levante, covano le loro uova in Sicilia, quindi partono di bel nuovo. Altri a cui danno nome di ritena vengono  in dicembre ed in gennaio dall’Africa; si posano qui per qualche tempo, e poi salgono sui monti.

Non ho fatta parola ancora del vaso del duomo. Si scorge su quello un eroe, armato di tutto punto, nell’atto di presentarsi ad un personaggio vecchio, seduto, che dallo scettro e dalla corona, si riconosce essere un re. A tergo di questo si scorge una donna in attitudine riflessiva, con il capo inclinato, la quale sostiene colla mano sinistra il mento. Parimenti si scorge di fronte, dietro all’eroe, un vecchio, colla corona sul capo, questi pure, il quale stà parlando con un individuo armato di uno spiedo, che sembra dovere essere una guardia. Si direbbe che quest’ultimo vecchio, debba avere introdotto l’eroe, e che stia dicendo alla guardia: lasciate pure che parli col re; è uomo del quale nulla si ha da temere.»

Sembra che in origine il fondo del vaso dovesse essere di colore rosso; le figure sono dipinte in nero, e soltanto sugli abiti in nero della donna, si scorgono traccie di ornati di colore rosso.

Girgenti, venerdì 27 aprile 1787.

Kniep ha d’uopo di lavorare indefessamente, per portare a compimento tutti i disegni a cui ha posto mano; io in tanto con il mio piccolo vecchietto, vado girando quà e là. Siamo stati a passeggiare sulla sponda del mare, dal quale Girgenti doveva pure porgere la bella vista che asseriscono gli scrittori antichi. Tenevo lo sguardo rivolto sulla liquida pianura, ed il mio cicerone mi fece osservare all’orizzonte, verso mezzo giorno, una lunga linea di nuvole, le quali assumevano forma quasi di una catena di monti, assicurandomi essere quelle le coste di Africa. Intanto io stavo osservando un altro fenomeno; si era venuto formando poco a poco un arco leggiero di nuvole, il quale disegnandosi sulla limpidezza azurrina del cielo, posava da una estremità sulla Sicilia, mentre l’altra  estremità si perdeva in mare, nella direzione di mezzo giorno. Illuminato questo dal sole, il quale volgeva all’occaso, faceva una bellissima vista. La mia guida mi disse che quell’arco correva nella direzione di Malta, ed essere possibile che posasse sù quell’isola l’altra sua estremità; essere questo del resto fenomeno che si osservava di frequente. E sarebbe pure strana cosa, che la forza di attrazione delle due isole, si dovesse esercitare in questo modo, a traverso l’atmosfera.

Quella vista mi portò a pensare ancora una volta, se io non dovessi recarmi pure a Malta? se non che, sorgevano di bel nuovo le difficoltà ed i pericoli, i quali ci avevano trattenuti fin qui, e finimmo coll’aggiustarci con il nostro vetturino, perchè ci portasse a Messina.

Intanto mi premeva togliermi una soddisfazione. Non avevo visto fin qui nella Sicilia contrade ricche di cereali, avendo trovato sempre l’orizzonte circoscritto a maggiore od a minore distanza dai monti, in guisa che avrei ritenuto difettasse l’isola di pianure, e non potevo comprendere, come fosse questa la terra prediletta da Cerere. Domandai informazioni a questo riguardo, e mi fu risposto che per vedere contrade ricche di cereali, non mi dovevo già portare a Siracusa, ma bensì traversare l’isola diagonalmente. Rinunciammo pertanto a vedere Siracusa, e con tanto maggiore facilità, in quantochè sapevamo benissimo che di quell’antica città, cotanto splendida un tempo, non rimanga oramai altro che il nome. Ed in ogni caso poi, volendo vedere Siracusa, vi ci potremo portare da Catania.

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, agrigento racconta, agrigento storia, akragas, girgenti, valle dei templi

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