La città di Agrigento era attraversata longitudinalmente, da ovest ad est, cioè dalla Chiesa dell’Addolorata a Porta di Ponte, dalle due strade rotabili, quella di Rabbato che, nella Piazza Vecchia, proseguiva col Cassaro.
Queste due vie, seguendo quasi una curva altimetrica della collina, si mantenevano in salita da Rabbato verso S. Giuseppe ed, in discesa, da qui in direzione di Porta di Ponte. Nel senso trasversale di queste vie, da ambo i lati, ma in maggioranza dal lato nord, si aprivano viuzze, vicoli e cortili, quasi tutti in pendenza, dovendosi superare dislivelli superiori agli ottanta metri, a seconda da dove si partiva, per raggiungere il Palazzo Vescovile, ove rispetto al piano stradale si raggiungeva la quota più elevata.
In linea generale queste viuzze, inframmezzate da irregolari piazzette anch’esse in pendenza, erano costituite da lunghe gradinate.
Lo storico Picone riferisce che, essendo vescovo di Girgenti, mons. Andrea Lucchesi Palli, donatore alla città della Biblioteca Lucchesiana, «…lastricò di selci le strade tutte della città e dei sobborghi,…» si era allora negli anni 60 del secolo XVIII. Si ritiene che alla distanza di 80 anni, da allora, le strade rivestite di selci potessero essere ancora in buono stato.
Fra queste gradinate e viuzze si espandeva la città; ricca di palazzi di nobili, di signori, di benestanti, frammisti a chiese, monasteri, edifici pubblici, casamenti con vani terrani (catoi) utilizzati per abitazione e casupole. Qui la massa della popolazione trascorreva la sua vita, nell’ambito del vicinato e del cortile (ne esistevano molti di cortili, nei quartieri popolari) che costituivano quelli che per la nobiltà, i signori e gli ufficiali erano i salotti od il «Casino dei Nobili» o quello «Empedocleo». I popolani si recavano al Cassaro o per protestare o per osannare, a seconda dell’alternarsi degli eventi, ed in occasione di grandi feste popolari e particolarmente, per quelle del patrono S. Gerlando, di S. Calogero e del Venerdì Santo.
Alla cattedrale si poteva accedere attraverso le varie gradinate, dalla ripida e stretta via di Lena, oppure da una strada rotabile che, da Porta di Ponte, passando fuori le mura ed i dirupi a nord della città, rientrava in essa da Porta Bibcrria, mollo prossima alla cattedrale.
Questa era la strada seguita dalle carrozze degli alti prelati, del patriziato e di quella dell’Intendente che rappresentava il Luogotenente Generale di Sicilia e quella della famiglia dell’Ufficiale Superiore Comandante la Guarnigione delle truppe di S.M. Ferdinando II di Borbone, per raggiugere la cattedrale. Ivi avrebbero assistito al «Te Deum» oppure alle funzioni religiose delle feste tradizionali, rendendo omaggio all’eminentissimo vescovo mons. Lo Jacono, che dal 1844 era stato chiamato a coprire la sede vacante dell’episcopio girgentino.
Uscendo da Porta di Ponte, sul piano omonimo, dopo aver oltrepassato lo stradone di S. Nicola, in prossimità della chiesa della Madonnna delle Grazie si saliva per una stretta trazzera all’orto di S. Vito, ubicato oltre il convento e la chiesetta omonimi. Quivi, quasi sotto la rupe, nel 1836, avendo il colera invaso la città di Napoli, si era costruito un «Campo Santo», mentre nel 1837, essendo il colera dilagalo in Palermo, si pensò di approntare un «Lazzaretto» nel convento di S. Vito. Opere provvidenziali, poiché dopo poco tempo il morbo si estese anche in Girgenti.
«…Al Molo la strage fu immensa», — riferisce il Picone in proposito — «…Non si parlò lungo i dieci mesi di nulla che avesse potuto interessare la pubblica amministrazione. Ogni desiderio, ogni volo, ogni mezzo era adoperato alla conservazione di sé stesso e della famiglia, che il terrore generava l’egoismo e questo l’abbandono di tutt’altro». — E successivamente continua, parlando del periodo del colera —: «…le sventure che avevano decimata questa popolazione».
Nelle vicinanze del camposanto c’era una zona, da decenni tristemente famosa, chiamata «campo delle forche». Quivi capitava di vedere penzolare sui patiboli, innalzati a seconda delle necessità del momento, i corpi inerti dei condannati, lasciati preda agli uccelli di rapina, quale monito ai viventi di un certo modo di fare giustizia. Molta gente ricordava l’uso frequente che si era fatto della forca; anche in tempi recenti; per non parlare dell’epoca dei fermenti causati dalla Rivoluzione Francese, avvertiti anche a Girgenti, sia pure con un certo ritardo.
Qui però trovarono terreno fertile presso la popolazione che dimostrò la propria avversione all’assolutismo dei Borboni, lottando agguerrita, fra le prime con le consorelle siciliane per la conquista della libertà.
Attilio Bianchetta, Attilio Bianchetta, Spigolature girgentine, Nubia 1989