• Menu
  • Skip to right header navigation
  • Passa al contenuto principale
  • Passa al piè di pagina

Before Header

Agrigento Ieri e Oggi

Header Right

  • Home
  • In 5 Minuti
  • Agrigento Racconta
  • Attualità
  • Storia Agrigento
  • Storia Comuni
  • Storia Sicilia
  • Storia Italiana
  • Storia Agrigento
  • Storia Comuni
  • Storia Sicilia
  • Storia Italiana

Header Right

  • Home
  • In 5 Minuti
  • Agrigento Racconta
  • Attualità

Un agrigentino racconta: la guerra, la fame, i rifugi, gli americani

27 Ottobre 2014 //  by Elio Di Bella

agrigento guerra

La guerra portò alle restrizioni economiche, al tesseramento di tutti i generi di consumo vitali: pane, pasta, etc. Tutto incominciò a scarseggiare quel poco pane razionato era nero, dal sapore di olio di lino, immangiabile e per procurarselo occorreva fare code interminabili. Le scarpe erano gli zoccoli di legno e, per le donne, andavano di moda le scarpe di sughero e le gonne corte per risparmiare sul tessuto. In ogni casa era ricomparso il fuso e l’arcolaio per filare la lana grezza di pecora e, i più fortunati, potevano farsi aggredire dal prurito perché riuscivano a procurasi calde calze o maglioni di lana grezza.

Nelle città scomparvero recinti e inferriate artistiche, tutto serviva per l’industria bellica, in ogni quartiere si scavavano gallerie sotterranee come rifugi antiaerei e i lampioni venivano appositamente schermati per nascondere ogni raggio di luce alla visione aerea. Ci siamo dovuti abituare alla guerra: esercitazioni in caso di allarme, dato dal suono insopportabile di una sirena installata in tutti i quartieri.

Sui tetti degli edifici pubblici e di culto era stato pitturato in giallo e nero un quadrato che, visibile dagli aerei, doveva risparmiare dalla distruzione gli edifici e la popolazione. I primi e soli edifici colpiti dagli “aerei alleati” sono stati : l’ospedale, una scuola e una chiesa che però non è stata distrutta. Si è poi saputo che la bomba non è esplosa perché il pilota dell’aereo, un italo-americano, non aveva innescato la spoletta, (pare che sul proiettile ci fosse scritto:”anche così si può amare la propria terra”).

Quando suonava la sirena, (successivamente ho saputo che era una meravigliosa creatura mitologica col corpo di pesce) bisognava correre sotto i rifugi ma, il più delle volte ci riunivamo nello scantinato a piano terra, abitazione di una vicina, che tutti ritenevano sicuro in quanto ricavato, in parte, in una grotta.

La vicina “Nina” faceva la verduraia in piazzetta S.Antonio e il marito il vinaio; a casa, naturalmente comandava lei. Entrambi erano ignoranti, non avevano potuto frequentare la scuola, ma lei era bravissima a fare di conto con un sistema tutto suo, basato su una serie di astine , il risultato era sorprendente, sta di fatto che nessuno è riuscito mai a superala in velocità nel risolvere operazioni complesse che, per scommessa, venivano improvvisate tra i presenti. Ci ritrovavamo in questa caverna buia, rischiarata dalla fiamma di una candela a olio, in 20/30 persone e, stranamente si “socializzava” , come si direbbe oggi e come oggi non si riesce più a fare.

La paura, la fame, la voglia di vivere, di farcela, ci accomunava e ci sentivamo un tutt’uno. Ognuno aveva il padre, il fratello, il figlio lontano, al fronte ma, di loro non si parlava. L’incontro iniziava col rosario, uno strano latino che, per mia nonna “da nobis hodie” diventava “Donna bissonia” e “requiescat in pacem”: “requie e scatta in pace”.

Una serie di preghiere di cui nessuno conosceva il significato, ma tutti ne sentivano la vibrazione. Ogni tanto usciva fuori l’isterismo di qualcuno e, il dramma si trasformava in risata generale, incontenibile e, la persona ritenuta più insignificante, in quel momento, si scopriva personaggio e riusciva a farti dimenticare cosa stava succedendo fuori.

“Totò Signa”, così veniva chiamato quel disgraziato che madre natura aveva voluto dargli l’aspetto di una scimmia, in un corpo già adulto che non superava il metro e venti. Dopo averlo gratificato di qualche bicchiere di rosso, in piedi sul tavolo, con una voce che era un misto di pappagallo ubriaco e ululato del lupo, ci raccontava le sue storie familiari con la spontaneità e l’ingenuità dei personaggi di alcune favole locali tipo “Giufà”. Una di queste storie la ricordo ancora perché rifletteva uno scherzo che si faceva tra bambini : Si metteva sotto il lenzuolo, all’altezza dei piedi, una spazzola; quando, allungando i piedi , toccava questo strano oggetto peloso, il malcapitato scattava fuori dalle coperte in preda alla paura. Totò signa era convinto che sua madre gli  faceva lo scherzo mettendosi la spazzola in mezzo alle gambe !!!.e lo raccontava con tanta semplicità e innocenza che riusciva a trasformare un momento di paura in un divertente spettacolo d cabaret.

Una notte in fretta e furia, abbiamo dovuto abbandonare le abitazioni in cerca di un vero “ricovero”; siamo andati in quello di S.Giuseppe con ingresso dall’allora “Istituto tecnico per geometri”. Una forte “corrente d’aria” causata dallo scoppio di una bomba, ci aveva risucchiati in una galleria buia; mia sorella s’era persa, l’abbiamo, poi, ritrovata a 10/15 metri di distanza , quasi incollata ad una parete. Un buio pesto in uno spazio ristretto dove non c’era posto per tutti e, così, si prese la decisione di spostarsi dalle suore del “Granata”.

Dopo qualche ora ci raggiunse mia madre e, su una lettiga, mio padre che aveva dovuto immediatamente abbandonare l’ospedale che era stato bombardato. Sono stati sei giorni “lunghi e senza pane” e non lo dico come frase ad effetto, abbiamo constatato, realmente, cosa significa la fame! Mia madre, nascondendo le lacrime, ci dava la razione del giorno: una banana divisa in tre: mattina , mezzogiorno, sera; noi bambini qualche volta riuscivamo ad impossessarci di qualche scarto lasciato da chi, più fortunato di noi, riusciva a procurarsi, all’esterno, forse anche rubando, qualche pezzo di formaggio o un litro di latte.

Dopo il terzo giorno, mia zia era riuscita a cucinare una zuppa di fagioli; si preannunciava una gran festa, col mio piatto, mi ero accucciato in un angolo della grande sala-spogliatoio del “Granata” ma non riuscii ad assaggiare nemmeno una cucchiaiata perché, all’improvviso, lo scoppio di una bomba aveva fatto frantumare i vetri di una finestra e i cocci avevano riempito il mio piatto e la testa. L’incoscienza di bambini ci portava a non soffrire più di tanto, avevamo formato un gruppo e cercavamo di inventarci i giuochi più strani per passare il tempo.

Tra gli amici ricordo in particolare Nonio Baeri, le sorelle Adriana e Claudia Scuteri e il fratello Ilario che, non so perché, chiamavamo “Persica” e che essendo il più irrequieto aveva maggiore voce in capitolo. Qualche volta, sfuggendo al controllo delle suore, ci spingevamo fino al portone principale e riuscivamo ad aprirlo e a guardare cosa succedeva fuori. Sempre tutto deserto ma, quella mattina del settimo giorno, una voce di uno strano italiano, chiamava insistentemente:.. affocato Ponfiglio.. ! affocato Ponfiglio..!. sporgendoci oltre una piccola curva della strada, scorgemmo un militare in divisa caki (i nostri vestivano in grigioverde) e una strana macchina scoperta (era una ]eep militare). I grandi, da noi informati, capirono subito che gli americani erano entrati in città e che cercavano l’avvocato Mario Bonfiglio, forse un loro collaboratore.

Per noi la guerra era finita, era il giugno del 1943. In quei lunghi sei giorni, la notte avevo trovato un posto dove distendermi per dormire; era una specie di grotta alta meno di un metro, forse una antica tomba scavata ai bordi di questo cunicolo di tufo adibito a ricovero . L’unico ospite era un soldato che si era nascosto e che non usciva mai da quel buco; non mi ricordo di averlo mai sentito parlare, solo la sera mi augurava la buona notte, mi ricordo soltanto che aveva tanta paura.

Lasciammo il ricovero per tornare a casa, la gioia si leggeva nel volto di tutti e le cose più insignificanti assumevano la forma di un rito.

Di quel dopo mi ricordo solo una gioia di fare qualcosa assieme e mi rivedo in cucina , con le mie sorelle, a lavare le stoviglie, a pulire casa, cose mai fatte prima e che oggi vedo come un desiderio inconscio di voler iniziare un nuovo cammino.

Avevo nove anni !

Mimmo Malarbì

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento racconta

Post precedente: «Gravure Vue de la vallée d'Agrigente en Sicile XVIIème Il Sole cadente ne indorava maestoso le vette. Viaggio ad Agrigento nel 1825
Post successivo: Il raffadalese che morì per l’Africa »

Footer

Copyright

I contenuti presenti sul sito agrigentoierieoggi.it, dei quali il Prof. Elio di Bella è autore, non possono essere copiati, riprodotti, pubblicati o redistribuiti perché appartenenti all’autore stesso. È vietata la copia e la riproduzione dei contenuti in qualsiasi modo o forma. È vietata la pubblicazione e la redistribuzione dei contenuti non autorizzata espressamente dall’autore.

Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 07/03/2001.

Privacy

Questo blog rispetta la normativa vigente in fatto di Privacy e Cookie . Tutta la docvumentazione e i modi di raccolta e sicurezza possono essere visionati nella nostra Privacy Policy

Privacy Policy     Cookie Policy

Copyright © 2023 Agrigento Ieri e Oggi · All Rights Reserved