Dalla terrazza dell’albergo, in mezzo a giardini lussureggianti, contemplavamo la città e i templi sparsi nella campagna.
Sul litorale che guarda l’Africa i mandorli hanno già le foglie e la terra è quasi interamente rivestita di un uniforme mantello verde. Io rimpiango di essere giunto qui alcuni giorni troppo tardi e di non vedere più i templi elevarsi in mezzo alla fioritura bianca dei mandorli, che un giovane poeta di Agrigento ha cantato in un suo poema intitolato: Neve di Sicilia. All’orizzonte il mare orlato di schiuma e solcato da barche in vista di Porto Empedocle, di cui scorgo le scogliere.

Noi siamo, infatti, nella patria di Empedocle ove doveva nascere anche Pirandello. Lo scrittore moderno non ha fatto dimenticare il suo celebre e lontano concittadino. Attraversando Agrigento, ho visto parecchie botteghe all’insegna del vecchio filosofo, che io confesso di conoscere molto poco, malgrado l’elogio quasi ditirambico di Renan.
“Empedocle non la cede, dice egli, ad alcuno dei genii straordinari della filosofia greca antesocratica, che furono i veri fondatori della scienza e della spiegazione meccanica dell’universo. I frammenti autentici, che abbiamo di lui ce lo mostrano come colui che intuì tutti i problemi, avvicinandosi spesso alle soluzioni che dovevano essere trovate duemila e duecento anni dopo da Newton, Darwin, Hegel…”.
Empedocle concepì anche, secondo Renan, la chimica dei corpi organizzati facendo a meno della divinità nelle sue ipotesi. Egli stesso si credeva un semi dio, quando usciva sulle strade con una corona d’oro e un corteo di giovani discepoli che lo seguivano acclamandolo.
Ma io non sono qui per meditare di filosofia, e penso a quella Agrigento che Pindaro chiama la più bella città dei mortali. Oggi essa, troppo lontana dal mare per goderne e per trarne profitto, sembra immobilizzata nella tristezza di essere stata e di non essere più. Che nè è delle sue ricchezze favolose e delle sue voluttuose abitudini che erano invidiate dalle altre città mediterranee? Quando Goethe vi si fermò non trovò neppure un albergo e dovette dormire in una fabbrica di maccheroni.
Il nuovo albergo, in piena campagna, tra la città moderna e i templi, permette lunghe sieste tra le piante e i fiori delle sue terrazze. Il grano verde ondeggia alla brezza.
I ciliegi, i susini, i peri elevano la loro fioritura verso un cielo turchino come il mare. Grandi asfodeli orlano i sentieri. Una specie di ebbrezza primaverile emana dalla natura in festa.

Da qui i templi danno meno quella impressione di pesantezza ch’io ebbi a sentire vicino ad essi; non distinguo più le colonne che mi sembrano troppo tozze e ravvicinate in relazione al peso leggero che sopportano. Io ora non vedo che l’insieme della loro massa attraverso il fogliame. Avevo del resto dimenticato che gli architetti costruivano sopra un suolo agitato e in movimento e dovevano rassegnarsi a dare ai loro monumenti meno eleganza purché fossero più solidi; e infatti essi vi riuscirono poiché uno di quei templi ancora sussiste quasi intero.
Le loro linee sono di una semplicità logica, e il loro piano senza mistero si offre al primo sguardo. E poi come dimenticare quei belli capitelli dorici, la cui nobiltà si sposa alla nitidezza, e la cui flessibilità delle curve non è stata mai superata ? Meravigliosi e perfetti artisti furono quei Greci che sapevano scegliere i più nobili posti per erigervi i loro capolavori e renderli degni di ogni decoro.
L’arte suprema non è essa il perfezionamento della natura da parte dell’uomo? Aggiungere alla bellezza la bellezza della terra: grave compito ben raramente realizzato nel corso dei secoli, mai meglio, in ogni caso, dei Greci del V secolo che raggiunsero la perfezione in quasi tutte le forme dell’arte.
Forse, in questa Sicilia, ch’essi trattavano da vassalla prima di vedervi una rivale, non ebbero nella costruzione dei monumenti la stessa cura che nella costruzione dei propri. Li costruirono non in marmo ma in un calcare grigiastro, di qualità inferiore, facilmente deteriorato dall’umidità e dai cambiamenti di temperatura. Essi dissimularono le tare della pietra sotto un rivestimento di stucco, caduto il quale, tutti i difetti appariscono. Ma da qui non si osservano e non si vede che lo splendore dei templi, specialmente alla caduta del giorno, quando il sole agonizzante mette sui loro blocchi delle tinte gialle e d’oro rosso. Da lontano l’acqua si adorna di riflessi cangianti; così essa ne completa il decoro.
(Gabrielle Faure, Agrigento, pagine estratte dal volume, “En Sicile”, a cura di R.Arthaud, ed.Grenoble,1930).