A Girgenti la nonna arrivava con l’autobus. La “Pentajota” la chiamavano gli autisti ed i meccanici ed anche tutti gli altri per imitazione.
E tutti declamavano la parola “Pentajota” come sinonimo di autobus, ignorando che i meccanici facevano invece riferimento al motore della Lancia, che contrassegnava i suoi motori con le lettere dell’alfabeto greco. E da cinque “J” era difatti contrassegnata la calandra dell’autobus che aveva carrozzerie disegnate e realizzate da personaggi allora ancora oscuri e poi divenuti in campo internazionale famosi come Pinin Farina, Giuseppe Farina, nome e cognome trasformatosi in un solo cognome a causa della notorietà e divenuto quindi Pininfarina, e così trasmesso ai discendenti.
Arrivava la nonna lì, in piazza Gallo, nei pressi del tribunale e del telegrafo che proprio negli stessi locali del tribunale allora aveva la sua sede, non essendo stato ancora costruito il marmoreo palazzo delle Poste del piano San Filippo (piazza Vittorio Emanuele
Ed aveva al suo seguito l’ultima delle figlie Vincenza, detta Virginia, che a sua volta aveva come personale appendice un’amica – collega, maestrina anch’essa, in compagnia della quale poi in città si sarebbe mossa per acquisti e visite a sarte e modiste. Mai è poi mai una ragazza “schetta”, nubile cioè, sarebbe andata in giro da sola. E così in due, come carabinieri, evitavano le “terribili” insidie della città, e si assicuravano la reciproca testimonianza dei loro stessi comportamenti.
E dall’autobus discendevano le tre donne di cui solo una era al comando e solo lei si lasciava avvicinare dei numerosi “vastasi” , che, di fatto, si sottoponevano al loro basto, come le bestie da soma, che in quella piazza Gallo sempre sostavano in attesa dell’arrivo dei pochissimi autobus o in attesa di qualche piccolo trasporto che qualcuno a loro poteva commissionare durante il corso della giornata.
E quelli sapevano dove sarebbero dovuti arrivare a Santa Maria. Sotto quel carico che quella donna periodicamente si portava dietro dal paese. E dimostravano un’assoluta sobrietà quando venivano richiesti del prezzo per la prestazione e proprio per non perdere l’occasione di lavoro rimandavano il rituale della contrattazione al lavoro compiuto. E allora questi poveri diavoli, allo scopo di alzare il prezzo del compenso, non accettavano quello che loro veniva subito offerto e senza plateale protesta rimanevano seduti sui gradini della scala di casa in attesa che la generosità dell’occasionale datore di lavoro facesse ulteriori passi avanti.
Quella presenza di quegli uomini per le scale infastidiva un po’ e alla fine il borsellino veniva aperto un po’ più generosamente e il rituale aveva termine, mentre in casa ne cominciava un altro.
Ma cosa mai avevano trasportato quegli uomini che spesso erano in due? Cosa c’era mai dentro quei numerosi sacchetti di tela? Ma il ben di Dio per noi ragazzini. C’era il pane di casa; c’erano le “miscate”; e i “cudduruna” sfornati nella prima mattinata poco prima della partenza. E c’era la cubaita, il torrone cioè fatto con le mandorle e
i pistacchi. E c’erano le mandorle sgusciate, proprio quelle che erano state raccolte nel fondo che è toccato in dote a Mamma, lì in contrada Manarisi dove poi d’estate andavamo in visita: la visita alla “tenuta”.
Era in verità un piccolo podere, ma alle porte del paese ed oggi già terreno edificabili. E poi c’erano i pistacchi di cui eravamo avidamente golosi e le sorbe e le carrube infornate: una vera leccornia non solo per gli asinelli, ma anche per fanciulletti desiderosi delle cose dal gusto misterioso ed esotico.
Se poi quell’arrivo si verificava in prossimità della Pasqua allora c’erano i “Paneddra d’ova” confezionati con la migliore farina, lucidi di albume d’uovo e belli anche a vedersi con quelle uova messe in bella mostra e quei semini di papavero e di giuggiolena che incontravano tanto il nostro gusto, che al primo impatto ce li andavamo a raschiare con gli affilati dentini.